by Editore | 14 Febbraio 2012 12:24
Sembra che il nuovo ordine europeo possa instaurarsi prescindendo dal consenso, dalla pubblica opinione, dalla fiducia. L’Europa si presenta come una grande banca, un’istituzione a sangue freddo, un arbitro regolatore ma senz’anima, dominato dall’unica religione dei parametri e impegnato nell’unica battaglia di contenimento del debito, prima e assoluta emergenza del continente. Ma l’emergenza può sostituire la politica, soppiantandola? E c’è qualcosa di vivo dietro i tagli, i sacrifici e i parametri europei?
la Repubblica ha condotto su questo tema una grande discussione pubblica, con gli interventi dei direttori delle grandi testate giornalistiche occidentali. Tutti, anche gli inglesi con il loro spirito critico sulla costruzione istituzionale e monetaria europea, hanno convenuto che si esce dalla crisi con più Europa, non con meno.E tutti hanno denunciato la debolezza della politica che rende l’Europa, come dice il direttore del Times James Harding, “senza leadership e senza soluzione”, un continente senza visione, senza coraggio, e dunque incapace di offrire ai cittadini traguardi simbolici che possano ricostruire una speranza oltre l’orizzonte preoccupante della fase che stiamo vivendo. Ma non solo.
Per gli osservatori europei i rischi sono molto maggiori di quelli che vediamo a occhio nudo. Le tre “A” che davvero ci interpellano (Asia, America, Africa) rischiano secondo Erik Izraelewicz, direttore di Le Monde, di marginalizzare l’Europa, troppo piccola e divisa per le nuove sfide globali. Per Arianna Huffington (Huffington Post) e per John Micklethwait, direttore dell’Economist stiamo diventando un continente “sadomasochista” che punta tutto sull’austerity, un’austerity che non farà altro che alimentare la recessione, perché come spiega Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, il rimborso del debito non può fare le veci di una politica europea che non c’è.
Ma il vero allarme è quello per la democrazia. I direttori di due giornali tedeschi, Giovanni di Lorenzo della Zeit e Heribert Prantl della Sueddeutsche Zeitung pongono la questione apertamente: “Il pericolo dall’interno è la sfiducia verso la democrazia, la tendenza a chiedersi se è ancora il sistema più efficiente oppure no. A lungo termine la sfida dell’Europa è questa”, dice di Lorenzo. Se i governi nazionali e la Commissione pensano di difendersi da soli si sbagliano, aggiunge Prantl: “Per farcela hanno bisogno del sostegno delle società dei Paesi membri, della fiducia dei cittadini, perché senza questa fiducia qualsiasi ombrello resta instabile”. Come dire che i saldi dell’auterità da soli non bastano. Anzi, avverte il direttore del Guardian Alan Rusbridger, se gli sforzi per la convergenza finanziaria “dovessere essere la causa dello smantellamento dei sistemi di redistribuzione e di welfare dai quali dipendono milioni di europei dei ceti meno abbienti”, si rischierebbero “reazioni nazionalistiche e populiste anche violente in quasi tutti gli Stati”. È il problema posto infine del direttore del Paàs, Javier Moreno: la legittimità delle scelte europee: “Con quanta legittimità si possono prendere decisioni per salvare l’Europa senza tener conto degli europei? È accettabile sacrificare la sovranità nazionale per salvare l’Unione Europea? Abbiamo accettato definitivamente l’idea che sia possibile governare senza chiedere ai cittadini il loro parere?”.
Il nodo che viene al pettine è vecchio come l’euro. Un nodo di sovranità , di potestà , di responsabilità intrecciate e mai definitivamente risolte. La moneta unica è stata insieme un atto di fede e di coraggio, dunque un gesto politico che la storia economica del mondo moderno non aveva mai conosciuto, per di più nato nel cuore del Vecchio Continente dove nel Novecento erano nate le guerre e i totalitarismi, con le ideologie trasformate in Stati e partiti. Ma l’euro non è diventato un principio costituente del nuovo ordine europeo, perché si è realizzato sotto la linea d’ombra della politica, riducendosi a strumento più che a soggetto, mentre ogni passo della sua costruzione fingeva ipocritamente di ignorare il successivo, non guardando al contesto.
Con la moneta unica l’Europa poteva trasformarsi da mercato a soggetto politico, e invece l’euro è nato politicamente e culturalmente sterile, come se fosse soltanto la proiezione geometrica dei parametri di Maastricht e poco più: parametri indispensabili per forzare la convergenza di base e l’uniformità tra i Paesi, ma sordi e ciechi per definizione, in quanto non contemplano la variabile decisiva della pubblica opinione e sono indifferenti ad un problema capitale delle democrazie occidentali, quello appunto della fiducia, della partecipazione e della condivisione, vale a dire del consenso.
La moneta è rimasta un “caffè freddo”, come dicevano i tedeschi nel 2001, una moneta nuda perché è senza uno Stato che possa batterla, senza un esercito che sappia difenderla, senza un governo che riesca a guidarla, senza una politica estera che la rappresenti e soprattutto senza un sovrano capace di “spenderla” politicamente nel mondo.
E tuttavia quel gesto di coraggio è il punto simbolico e concreto più alto raggiunto dalla politica nel nostro continente, dopo le divisioni delle guerre. Oggi ci accorgiamo che l’inclusione del consenso è indispensabile, per non far perdere all’Europa e all’euro la fiducia degli europei. Ma dobbiamo anche dire che questa difesa improvvisa delle sovranità e delle autonomie nazionali davanti a Bruxelles e Francoforte nasconde un problema: l’incapacità di molti governi (e delle loro pubbliche opinioni, giornali compresi, va aggiunto) di rispettare le regole comuni che tutta l’Europa si era data, e che sono state per troppi anni disattese o addirittura aggirate.
Il problema è che tutto il sistema di governance dell’Occidente deve essere rivisto sotto l’urto della crisi. Per la prima volta scopriamo che la ripresa americana rischia di non trainare l’Europa, appesantita dal carico dei debiti sovrani, dalla miopia di un’austerity che non stimola la crescita: se il problema-opportunità della Cina trasformerà nel secondo mandato Obama in un presidente “asiatico” il nostro continente toccherà con mano un isolamento a cui non è abituato e soprattutto non è preparato, avendo abitato per decenni il concetto di Occidente senza una precisa idea di sé, e senza una politica estera conseguente.
Ma gli altri problemi sono tutti indigeni, nascono e crescono in Europa. Come regoleremo il nuovo rapporto di sovranità tra gli Stati nazionali oggi esautorati dall’Europa e le istituzioni comunitarie? Come armonizzeremo la leadership europea di fatto (Merkel) con quella di diritto (Barroso e Van Rompuy)? Come ci comporteremo con una Banca Centrale benedetta perché compra il debito pubblico degli Stati, ma sempre più soggetto attivo e diretto dell’Europa, senza avere alcuna rappresentanza dei cittadini? E infine, come risponderemo a quelle spinte nazionali e sociali (le parole sono proprio queste) che stanno riemergendo a destra e a sinistra davanti ad una politica europea che non sembra una politica, ma il bando di un sovrano a cui dobbiamo soltanto ottemperare?
La parola, per fortuna e come sempre, tocca alla politica, all’establishment europeo, alle cancellerie e alla cultura: anche se la dominante è la crisi, siamo in realtà all’inizio di un processo di fondazione istituzionale, e un nuovo europeismo può diventare l’unica ideologia superstite e utile, dopo la sconfitta di tutte le altre. Tocca alla classe dirigente europea, nel suo insieme, riprendere il coraggio incompiuto dell’euro e usare la moneta e il mercato, dopo un decennio di strumentalità neutra, come suscitatori e fondatori di vere istituzioni sovranazionali e democratiche: per riunire l’Europa, la politica e i cittadini in un destino condiviso del continente, in un’idea forza e in una visione. Che non può essere soltanto tagli e sacrifici. Una speranza europea è ancora possibile, anzi è l’unica arma contro la crisi.
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