Quella politica fondata sulle differenze

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In fin dei conti, se tentiamo di ritornare all’origine, oppure alla sua conclusione, oggi più che mai non sappiamo ancora che cosa avrà  voluto dire democrazia, né che cos’è la democrazia. Impressiona la nettezza con la quale Jacques Derrida, nel resoconto che ne offre Simone Regazzoni in Derrida. Biopolitica e democrazia (Il Melangolo, pp. 108 euro 12), abbia centrato il cuore del problema. Tra gli sterminati inediti che iniziano ad essere pubblicati, nelle riletture meno prevenute di quelle marxisteggianti o di quelle pseudo-letterarie dei dipartimenti americani di letteratura francese, emerge l’immagine di un filosofo lontano da quello descritto come uno spensierato bohémien dallo stile accademico contorto. Bisogna precisare che il lavoro di Derrida sulla democrazia, dal punto di vista di una filosofia politica accademicamente intesa, è inconsistente. 
Ma questa osservazione ha il valore di una liberazione considerata l’insulsa arroganza di questa «disciplina», oltre che i suoi irenici o testimoniali effetti ottenuti sia sulla sponda analitica che su quella continentale. Derrida dimostra che se un pensiero della democrazia esiste, è un pensiero della differaenza, di ciò che si sottrae alla sovranità , nega di volersi incarnare in un’essenza e non intende assomigliare al concetto della sua tradizione politica. 
Nel primo volume dei Seminari, La bestia e il sovrano (Jaca Book), ma a ben vedere sin dagli inizi della sua ricerca con la Scrittura e la differenza o la Grammatologia, Derrida ritorna ossessivamente su questo movimento prima testuale, che poi si fa ontologico, infine politico, e quindi costituente. Si scopre così che la filosofia della differaenza, cioè della differenza e del movimento di differenziazione prodotto da questa differenza, ha un fondamento «fuori dal testo», sta dentro le pieghe del vivente e della storia. Derrida si scopre così un pensatore dell’immanenza, sconvolgendo le tradizionali partizioni che l’hanno collocato sul fronte «decostruzionista». 
Un vero colpo di scena che permette a Derrida di sfidare sul loro stesso terreno i teorici della «biopolitica», quella “filosofia politica” che da un ventennio ha interpretato alcuni parzialissimi passaggi di Foucault nei suoi corsi al Collège de France, pensando di arrivare così al cuore della sua teoria del potere, quando invece ha solo sfiorato la ben più rilevante analisi della governamentalità  il cui obiettivo è rendere produttiva la vita, non sanzionarla col suo potere di morte. 
Memorabile è a questo propostito la critica, al vetriolo, che Derrida fa di Homo Sacer, libro peraltro considerevole, di Giorgio Agamben. Al di là  della diatriba sottile, quanto efferata, che ricorda lo scontro sulla Storia della follia con Foucault alla fine degli anni Sessanta, queste pagine rappresentano il punto più alto della riflessione sul politico degli ultimi anni. Dopo averle lette sarà  difficile pensare che la politica stia nel conflitto tra una «biopolitica» o un «biopotere», tra una «nuda vita» e un potere sovrano seguendo il classico schema trascendentale. Così facendo si nega la democrazia come differaenza, cioè come apertura su ciò che di radicalmente differente si afferma nel presente. Ciò non toglie che lo stesso Derrida resti prigioniero di una teologia politica negativa. E lo resterà  finché la sua differaenza non s’incarna nel desiderio di indipendenza, come nella dura e radicale volontà  di affermare l’uguaglianza e la cooperazione delle donne e degli uomini.


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