Quel difficile equilibrio tra ferocia e piaceri della vita

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Libertà  di scrivere, dire, tentare a parte – non ci si scandalizzerà  per così poco. C’è però qualcosa che non torna nella perorazione quasi messianica in favore del vegetarianesimo messa in atto da Jonathan Safran Foer e da molti di coloro che hanno fatto proprie non tanto le tesi o le pratiche (liberi di farlo) ma le generalizzazioni (produttive di ben altre ricadute, e qui occorrerebbe prestare più attenzione) del talentuoso scrittore newyorkese. 
Fin dalla sua uscita nel novembre 2009, Eating animals si è rivelato un libro di forte impatto emotivo, non a caso capace di confermare i vegetariani nelle loro convinzioni di partenza, trasformandoli spesso da innocui frequentatori di salotti green in missionari armati di buoni argomenti pronti a evangelizzare schiere di dubbiosi carnivori. Il tutto, facendo leva non tanto sulla troppe volte evocata «ragione» e sui «buoni argomenti», ma sui sensi di colpa ingenerati dall’immagine di macelli descritti come gironi infernali dove i polli hanno occhi da bambino e dietro la dura scorza della bestia batte l’anima di un quasi-uomo. Si deve rispettare la vita, ma rispettare la vita in sé rischia di diventare qualcosa di astratto, che coinvolge tutto quanto è dotato di funzioni neurovegetative, dal lombrico all’ameba.
Nessuno nega che gli allevamenti intensivi visitati giorno e notte da Foer esistano, ma proprio perché esistono sono indizi deliranti di un sistema socio-economico che in sé delira, non una sua parziale aberrazione. Ma questo è un altro discorso e attiene problemi – dall’iperproduzione al consumo, dalle forme di intensificazione del lavoro alla contrazione degli spazi sociali – che Foer non sfiora, schiacciato com’è tra il racconto del cibo kosher di sua nonna e l’orrore che suo figlio possa crescere mangiando animali, cose di cui fa ampia menzione nel libro. A lui, verrebbe da dire, interessa molto la bestia, ben poco l’uomo. Ma gli stessi dati su cui poggiano le più interessanti asserzioni del libro, anche nei capitoli apertamente «documentaristici» – come il sesto, titolato Fette di paradiso, pezzi di merda – se non immediatamente falsi, risultano mediatamente e ampiamente distorti dalla lettura. Una lettura che Foer, da grande scrittore quale è, è abile a indirizzare alimentando una forma di dissonanza emotiva anche nell’animo dei più restii a ogni argomentazione in favore del non mangiare carne. Un bel libro rimane tale anche se non ne condividiamo le tesi. Ma un libro a tesi, come quello di Foer, non dovrebbe mirare che alla ragione, altrimenti diventa un libro sbagliato. Forse per questo Eating animals tende ad assomigliare a un lezioso marchingegno volto, più che a convincere e comprovare le proprie ragioni, a instillare nel lettore sensi di colpa e retropensieri, esattamente come il veleno che Claudio versava a poco a poco nell’orecchio di suo fratello Amleto, generava a poco a poco fantasmi.
Nessuno, oltretutto, potrà  mai mettere in dubbio che il libro di Safran Foer, tradotto in italiano per Guanda nel 2010 con il titolo Se niente importa, sia un coinvolgente e sotto molti aspetti riuscito esperimento biografico-saggistico. Ma, come ogni esperimento, non può fare prova a sé. Va verificato, testato a dovere, sondato sul terreno delle cause e nel campo degli effetti. È quanto fa Pierangelo Dacrema in una delle parti più intense del suo, per noi carnivori avvincente, Fumo, bevo e mangio molta carne!, pubblicato con una premessa di Jody Vender da excelsior 1881 (pp. 243, euro 14,50). Un libro che (anche) alla decostruzione dei luoghi comuni di cui il libro di Foer è al tempo stesso artefice e portarore sano è dedicato. Il lavoro di Dacrema, costruito come un delicato elogio della libertà  di scelta, ma anche del gusto e del ben vivere, è quanto mai liberatorio in questi tempi di passioni e economie tristi, e non manca però di affondare lo stilo proprio là  dove Foer e il suo seguito non arrivano, ossia nel punto più delicato e fragile della questione: mangiamo carne non solo per tradizione, per inveterata abitudine, per atavismo. Mangiamo carne perché siamo mortali e fallibili, ma siamo comunque votati se non alla ricerca, quanto meno alla scommessa – nell’ottica anche paradossale del pari evocato da Pascal – sul senso. Se mangiamo animali non è, come scrive Foer, perché nulla vale, ma proprio perché, pur ammazzandoli, speriamo che questo non sia privo di senso. La vita, scrive Dacrema, «è una malattia sessualmente trasmissibile e dall’esito sicuramente infausto». Barattare la ricerca di un equilibrio nei vizi e nei piaceri, riducendoli a mera saturazione di necessità  fisiologiche in virtù di un ideale di salute assolutamente sganciato dalla percezione di questo esito infausto, e quindi dei nostri limiti, ci porta ad assumerci ruoli salvifici che non abbiamo e, dopo tutto, avendo liquidato dio, che nessuno più ci chiede di fare propri. 
Economista cui non fanno certo difetto stile della scrittura e capacità  analitica, ma anche – lo apprendiamo dalle prime pagine del libro – incallito fumatore, bevitore e divoratore di carne, nonché membro del comitato etico-scientifico dell’Associazione italiana allevatori, Dacrema ci ricorda che il ragionamento di Foer è pieno di ardore, ma privo di vigore. Manca di quel dramma senza il quale un ragionamento che si vuole ultimo e chiaro, su elementi decisivi come il vivere o il morire, l’infinità  crudeltà  e l’infinita dolcezza della vita, diventa patetico. E quegli elementi decisivi suonano solo come vuoti pretesti, in perfetto accordo con lo spirito tutt’altro che libero dei nostri tempi. 
Spegnere una vita animale, ricorda Dacrema, è un gesto impegnativo ma la libertà  è impegnativa e difficile ed è una sorta di apertura sul vuoto. Dacrema ha visitato macelli, ha diretto strutture tecnologicamente avanzate e ambientalmente compatibili e, non meno di Foer, porta la sua testimonianza su cose che ha visto e questioni che conosce. Ma, al contrario di quanto fa lo scrittore americano, non vuole convincere nessuno. Vuole solo rivendicare – e lo fa con una scrittura raffinata e una forza persuasiva alquanto rare – il suo e l’altrui diritto a mangiare carne, oltre che a fumare e bere, senza che a ogni angolo di strada qualcuno insorga cercando di farlo sentire in colpa. Se mangiamo animali è dunque proprio perché, contrariamente a quanto suppone Foer, qualcosa vale e aprirsi sul vuoto non significa, necessariamente, gettarvisi dentro.


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