Quei giudici europei che difendono i diritti dell’uomo
Rispetto alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 e ai successivi Patti dei diritti civili e politici e dei diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, si caratterizza per il fatto che viene istituito un giudice di quei diritti e di quelle libertà .
E’ questa la grande novità , che per la prima volta si trova in uno strumento di diritto internazionale. I diritti dell’uomo avevano già trovato riconoscimento in Europa, ma solo a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Ma mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti ad un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di «controllo giurisdizionale esterno» è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, che copre la vasta area dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa. Il sistema si fonda sull’istituzione di una Corte indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati ed imporre loro di ripararle. Nel procedimento che si apre davanti alla Corte la persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e doveri. La persona fa valere i diritti di cui è titolare e che non derivano dallo Stato, ma sono da questi «riconosciuti» (art. 1 Conv.).
Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo «esterno» implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative. Quel controllo innanzitutto rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri) dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata com’è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi.
La definizione dei singoli diritti resta generale e vaga nella Convenzione. Non si tratta di un difetto redazionale. Si tratta invece di una scelta, che rimette al giudice la responsabilità di adattare la portata dei diritti e delle libertà fondamentali alle esigenze dei tempi e allo sviluppo delle correnti culturali e sociali espresse dalla società europea contemporanea. La Corte pratica un’interpretazione ed una applicazione della Convenzione, che essa stessa definisce dinamica e evolutiva secondo lo scopo della Convenzione che è quello di rendere concreta ed effettiva la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo.
Quando la Corte Costituzionale italiana, con due sentenze del 2007, ha affermato l’obbligo per il giudice, prima di eventualmente sollevare la questione di costituzionalità , di fare ogni sforzo possibile per interpretare le leggi nazionali in modo tale da renderle compatibili con la Convenzione europea «così come interpretata dalla Corte europea», ha necessariamente fatto rinvio sia al contenuto della giurisprudenza europea, sia al suo metodo casistico, teso alla protezione effettiva del diritto del singolo individuo. Esercizio certo non facile, ma necessario, non solo da parte del giudice (e della stessa Corte Costituzionale), ma anche da parte del legislatore chiamato a produrre leggi compatibili con la Convenzione nel loro contenuto e nella loro struttura.
I giudici che compongono la Corte sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di «rappresentanti» del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati ad esprimersi liberamente. La loro origine ed esperienza nazionale contribuisce alla ricchezza, pluralismo e completezza del dibattito interno alla Corte, in vista di decisioni che riflettano o siano compatibili con la cultura europea e con i sistemi giuridici presenti in Europa. Ma non si può dire che i giudici portino nel dibattito interno alla Corte un «orientamento culturale prevalente» nel loro Paese di origine. In società pluralistiche come sono quella italiana e generalmente quelle europee, ciascuno si ritrova su posizioni (ed in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché piuttosto che ad una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a diverse minoranze o maggioranze diversamente composte. Ciascun giudice della Corte esprime dunque la sua posizione, caso per caso, materia per materia, senza pretesa di parlare per un’intera società . E’ però l’apporto che i molti giudici danno alla discussione, che consente alla Corte, almeno nella sue intenzioni, di raggiungere conclusioni che riflettono le tendenze di fondo delle società europee.
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