Quanto è complicato voltare pagina

by Editore | 23 Febbraio 2012 7:33

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Transizione, giurisdizione, legittimità : nel triangolo definito da questi tre punti-chiave si inscrive una massa di questioni – e di conflitti – cruciali per le comunità  civili che, lasciatosi alle spalle un passato di violenza (agìta o subita), hanno inaugurato una nuova fase della propria storia. Quel passato che fine farà ? E con quali strumenti, per mezzo di quali istituzioni, in base a quali criteri e principi potrà  essere giudicato e, in qualche misura, superato? 
Il secolo che si è appena concluso ha generato una quantità  di situazioni riconducibili a questo quadro e tali da mettere in luce l’estrema difficoltà  di pervenire a soluzioni effettive, esenti da forzature e dal rischio di generare nuovi conflitti. Si pensi al secondo dopoguerra, allorché vennero alla luce gli inauditi misfatti commessi dai nazifascisti. Ne discesero i processi di Norimberga e di Gerusalemme contro i vertici del Terzo Reich e contro Eichmann: fondamentali – oltre che per un primo riconoscimento degli atroci patimenti inflitti alle vittime del nichilismo razzista – nella costruzione di un sistema normativo parametrato sui «diritti umani», ma proprio per questo investiti da roventi controversie sulla legittimità  dei tribunali e del principio («di Norimberga») della responsabilità  penale individuale per i crimini di guerra. E si pensi, per restare in Europa e venire più vicino a noi, allo strazio della ex-Jugoslavia, alle guerre nei Balcani con il loro corteo di «pulizie etniche», fosse comuni e stupri di massa. Il tutto è, dagli anni Novanta, materia di dibattimenti e sentenze emesse dal Tribunale penale internazionale dell’Aia, altrettanto discussi in ordine al loro fondamento giuridico e alla loro produttività : alla legittimazione di una corte che secondo molti (a cominciare dal giurista finlandese Martti Koskenniemi) fallirebbe nella sua aspirazione cosmopolitica e stabilizzatrice.
Contesti in conflitto
Il punto è che, quando il passato comincia a passare, «fare i conti» con le macerie che esso ha prodotto diventa una cogente necessità  ma è estremamente complicato, sia sul piano politico e morale che su quello giudiziario. Difficile è anche soltanto separare torti e diritti, come ben sanno gli studiosi (filosofi e giuristi) attenti ai problemi di giustizia retributiva e ristorativa che appunto insorgono laddove concorrano, confliggendo, contesti istituzionali, ordinamenti giuridici e, sullo sfondo, sistemi valoriali tra loro indipendenti e non di rado incompatibili. 
Della «giustizia di transizione», come si intitola questa complessa materia, il filosofo e sociologo norvegese Jon Elster fornì anni fa un’influente sistemazione. Il suo Closing the Books. Transitional Justice in Historical Perspective (2004) analizzava con cura la posizione degli attori (vittime e colpevoli), le loro motivazioni ed emozioni, le implicazioni politiche dei processi (o le ragioni della loro assenza). Da quel momento, complice il moltiplicarsi dei casi rilevanti, le teorie della giustizia di transizione si sono complicate, prospettando ipotesi caratterizzate dall’intreccio tra le diverse vie d’uscita dal passato (quella giudiziaria e quella simbolica, quella discorsiva e quella istituzionale). In questo variegato contesto particolarmente opportuno giunge l’ultimo contributo di Pier Paolo Portinaro, filosofo della politica da anni dedito all’analisi dei meccanismi istituzionali e delle logiche normative sottese al loro funzionamento. Quella offerta nel suo notevole I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia (Feltrinelli 2011, pp. 219, euro 22) non è soltanto una preziosa tipologia (quadripartita, in corrispondenza ai quattro fondamentali percorsi della «giustizia transizionale»: vendetta ed epurazione; giustizia politica; amnistia; riconciliazione), ma anche la ricostruzione di una stratificata discussione teorica e una rigorosa valutazione critica dei suoi presupposti e delle sue non lineari né sempre confortanti conseguenze.
Burocrati alla sbarra
Segnato di norma dalla violenza, il combinato vendetta-epurazione è la forma di chiusura con il passato (e col nemico sconfitto) tipicamente pre-moderna. Non del tutto prive di legittimazione (per secoli hanno goduto del «plusvalore della sacralizzazione»), le epurazioni non scompaiono tuttavia con l’avvento della modernità , e nel Novecento conoscono un revival legato alla parabola dei cosiddetti totalitarismi. «Epurare» fu necessario, dopo il crollo dei fascismi, per garantire l’affidabilità  democratica delle nuove classi dirigenti. Il problema – postosi, oltre che in Italia e in Spagna, in gran parte dell’America latina – assunse toni drammatici in particolare in Germania, e del resto il nazismo è, sottolinea più volte Portinaro, il vero experimentum crucis della giustizia transizionale. L’analisi della Entnazifizierung getta, così, sul tappeto un primo, intricato nodo concettuale, nella misura in cui la dubbia effettività  dell’epurazione del personale dirigente privato e pubblico (capitani d’industria compromessi con la macchina dello sterminio; quadri delle pubbliche amministrazioni, alti burocrati e magistrati fedeli al regime) dichiara l’intrinseca ambivalenza della giustizia di transizione. Che, se da un lato rende visibile l’esigenza di riconoscere i torti e ripararli, dall’altro non di rado conduce al loro occultamento, scaricando sulle vittime un surplus di violenza e un’ingiustizia che si rinnova nel tempo. 
Il nazismo campeggia al centro anche della seconda sezione del libro, dedicata alla via giudiziaria alla transizione, in sostanza alla problematica esperienza dei processi post-bellici. Come mostrano alcuni saggi raccolti in un altro volume che interseca molti di questi temi (la silloge Giudicare e punire. I processi per crimini di guerra tra diritto e politica, apparsa a cura di Luca Baldissara e Paolo Pezzino presso L’ancora del Mediterraneo nel 2005), Norimberga non costituì soltanto il paradigma della giustizia di transizione nella storia tedesca ma, più in generale un passaggio fondativo nel campo del diritto penale internazionale. Tale ruolo cardine – consolidatosi nei successivi processi di Norimberga e Dachau celebrati dinanzi a corti militari americane – non deve tuttavia far perdere di vista l’ambiguità  immanente a una giustizia politica intesa e amministrata come resa dei conti. 
Due circostanze di enorme portata, tra loro connesse, emergono al riguardo: il fatto che, facendo valere presupposti giusnaturalistici, i tribunali punirono reati non ancora previsti dai codici e dalle normative internazionali, e la plateale violazione del principio di non-retroattività , ribadito da Kelsen proprio a proposito di Norimberga. Di fatto, già  negli anni Quaranta si cominciarono a lamentare deroghe e forzature in una giurisdizione carente sul piano della competenza e della costituzione materiale dei tribunali, temi sui quali è tornato da ultimo Danilo Zolo nel suo rilevante Giustizia dei vincitori (Laterza 2006).
Dilemmi ricorrenti
Un ulteriore problema giuridico di prima grandezza, in grado di minare le fondamenta stesse dei procedimenti, fu posto con forza dai critici del «modello di Norimberga»: lo scarto tra la configurazione collettiva dei crimini politici e la dimensione individuale della responsabilità  penale. Sul punto Portinaro svolge tuttavia un’argomentazione serrata, mostrando come nessuna pur fondata obiezione possa cancellare l’esigenza di giustizia e di sanzione. Sotto il profilo dell’imputabilità  penale – questa la sua conclusione, pienamente condivisibile – «l’adozione di un modello penalistico che avesse omesso di considerare la specifica natura di quelle organizzazioni complesse che sono i sistemi politici avrebbe avuto fatalmente come esito la legalizzazione dell’impunità ». A Norimberga, in altre parole, emerse l’inderogabile esigenza di tematizzare sul piano giuridico la complessa struttura della macrocriminalità  politica e di ripensare il diritto penale internazionale alla luce della divisione dei ruoli propria delle organizzazioni burocratiche. 
Questi stessi dilemmi si ripresentano, non per caso, nella terza forma di giustizia di transizione, ancora molto diffusa perché tipica dei processi non univoci, dove i confini tra il vecchio e il nuovo sono poco netti, se non addirittura precari: l’amnistia non coinvolge soltanto – in modo negativo e paradossale – il tema della responsabilità  (eludendolo, dal momento che una decisione politica impone il «reciproco oblio dei torti patiti»), ma anche, nuovamente, il diritto alla giustizia, che le amnistie di fatto negano avallando la violazione dei connessi diritti alla verità  (donde l’obbligo per gli Stati di promuovere indagini), alla protezione giuridica, al risarcimento e al giusto processo.
Come si vede, nelle tre tradizionali forme, sin qui passate in rassegna, la giustizia di transizione resta, in molti casi, un’aspirazione, un compito da assolvere. Il diritto viene in parte ignorato o negato. O, come nel caso dei processi post-bellici, costruito su basi incerte, problematiche, essenzialmente controverse. Resta la quarta forma – la riconciliazione – di certo la più ambiziosa, forse l’unica che meriti appieno il nome di giustizia. Ma anche questa via regia è travagliata (del resto il tema è anche psicoanalitico, coinvolgendo direttamente l’elaborazione del lutto da una parte e del sentimento della colpa dall’altra), e nemmeno in questo caso mancano i dilemmi.
Nella costruzione di Portinaro, il complesso edificio della riconciliazione comprende tre snodi, sulla cui attualità  sarebbe pleonastico mettere l’accento. Si tratta in primo luogo del tema delle riparazioni materiali, tornato di recente agli onori della cronaca per la (vergognosa) decisione della Corte penale dell’Aia favorevole al ricorso tedesco contro la sentenza della Cassazione italiana che aveva sancito la responsabilità  penale della «nazione tedesca» quale «mandante» delle stragi naziste di Cornia e San Pancrazio. Ma se l’iniquità  della decisione dell’Aia è fuori discussione, non per questo il discorso dei risarcimenti appare agevole. Ancora una volta si moltiplicano i conflitti: dire risarcimenti materiali nei casi di perdita di vite umane, di schiavizzazioni, di genocidi, di stermini significa, per un verso, evocare scambi ineguali; d’altra parte l’interpretazione materiale della giustizia retributiva vale ad evitare comode liquidazioni simboliche e una conseguente moltiplicazione delle ingiustizie. Permane la difficoltà  di definire la misura della compensazione, di assegnare le responsabilità  (ancora una volta la tensione tra individuale e collettivo) e, soprattutto, di individuare nel concreto i titolari del diritto laddove (si pensi ai casi emblematici della dominazione coloniale e della riduzione in schiavitù) il tempo abbia diffuso su intere comunità  gli effetti della violenza. 
Riconciliazione vuol dire in secondo luogo giustizia ristorativa, tesa a compensare i limiti dei processi penali e della verità  giudiziaria puntando su una ricostruzione condivisa («completa, proclamata ufficialmente ed esposta pubblicamente») degli eventi storici. A questo fine operano le Commissioni per la verità  e la riconciliazione (fu pionieristica in materia la «Comisià³n nacional sobre la desaparicià³n de personas» insediatasi a Buenos Aires nel 1983 durante la conversione democratica di Alfonsà­n e approdata due anni dopo al documento finale Nunca mà¡s), tese a ridimensionare il ruolo dei processi senza ricorrere ad amnistie. Ma Portinaro mostra quante insidie siano in agguato anche in questo caso. La proclamata «ricerca della verità » può celare propositi opposti e subire distorsioni: servire di fatto ad aprire vie di fuga verso l’impunità . Così la riflessione sull’esperienza delle Commissioni approda all’esame dell’ultima strategia di riconciliazione, rappresentata dalla costruzione della memoria, sulla cui funzione si è riflettuto a fondo nel corso degli ultimi trent’anni soprattutto a seguito della necessità  di «fare i conti» con la Shoah. 
Muovendo da fondamentali contributi koselleckiani apparsi a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dello scorso decennio (Diskontinuità¤t der Erinnerung, 1999; Formen und Traditionen des negativen Gedà¤chtnisses, 2002), Portinaro indaga con attenzione il fenomeno della «discontinuità  della memoria», della «frattura tra le memorie di persone e gruppi e il sapere e le interpretazioni che di esse forniscono generazioni successive». Ne emerge un tema cruciale, giacché in questa cesura si rivelano le molteplici finalità  della memoria, non sempre nobili e spesso in conflitto tra loro: se da una parte si tratta di non dimenticare (di comprendere la storia e di riconoscere le vittime), dall’altra il lavorio sulla memoria, necessariamente di parte, può tradire l’intento di autoassolversi ed esternalizzare la colpa, o quello di alimentare il dissidio, generando nuove conflittualità  sul terreno politico. E proprio questo esito problematico sembra racchiudere il senso complessivo di tutto il percorso analitico. 
Chiudere col passato è necessario, ma la «resa dei conti» dev’essere autentica: non elusiva della complessa natura dei macrocrimini politici né generatrice di nuove ingiustizie o di nuovi conflitti; e deve produrre soluzioni non soltanto moralmente legittimabili ma anche pragmaticamente perseguibili. Ineludibile, è un passaggio obbligato lungo un campo minato. Sicché la giustizia transizionale resta inevitabilmente stretta (e minacciata) dall’«alternativa tra il chiudere i conti con il passato senza averli fatti e il fare i conti con il passato senza mai chiuderli». 
Tanto più appare coraggioso il tentativo di affrontare il discorso di petto, non solo mettendo a frutto un’ampia documentazione e una rimarchevole competenza, ma anche astenendosi da moralismi e forzature ideologiche, sullo sfondo della consapevolezza che la moralizzazione delle relazioni internazionali è destinata a rimanere una questione aperta proprio per il carattere del nostro tempo. Le transizioni non sono certo prerogativa di quest’epoca, ma il rapporto col passato e con quanto esso comporta coinvolge oggi come mai in precedenza le comunità  come soggetti. Il che dimostra – se mai ce ne fosse bisogno – come la giustizia faccia problema soprattutto in quanto corollario della democrazia.

PROFILI

La relazione
«Nunca Mà¡s»

Presieduta dal celebre scrittore Ernesto Sabato (scomparso centenario nel giugno del 2011), la «Comisià³n nacional sobre la desaparicià³n de personas» – come ricorda Alberto Burgio nell’articolo in questa pagina – si è insediata a Buenos Aires nel 1983 durante la conversione democratica di Raul Alfonsà­n e dopo due anni di incontri e di udienze ha elaborato il documento finale «Nunca mà¡s», il cui prologo, scritto da Sabato, ha suscitato non poche polemiche (ed è stato poi «affiancato» da un nuovo prologo) per una frase divenuta celebre come la «Teoria dei due demoni»: il terrorismo di stato messo in atto dalla dittatura militare veniva infatti descritto come una risposta a una situazione di violenza generata dal basso. Venduta in tutto il mondo in quasi mezzo milione di esemplari e tradotta in tutte le principali lingue del pianeta, la relazione «Nunca mà¡s» è stata successivamente ristampata in occasione del trentennale del golpe militare e, oltre al nuovo prologo, contiene una lista aggiornata dei Centri di Detenzione Clandestina (che da 365 sono passati a 498) e i nomi dei «desaparecidos».

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