“Nel reparto eravamo 30, siamo rimasti in 2 quei soldi non mi aiuteranno a vivere di più”

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TORINO – Anche se vive a Casale Monferrato da oltre mezzo secolo, Pietro Condello, 66 anni, continua a parlare con l’accento della sua Messina. Di 66 udienze non ne ha persa una, sa bene che quella tuta, azzurro scuro con la scritta Eternit ricamata in giallo sul petto, attira le telecamere e i fotografi. Ma non gli importa, e non è per questo che la indossa, piuttosto per ricordare i suoi compagni che non la possono più mettere: di 30 operai del reparto “Materie prime” sono vivi in due, e lui è uno di quei due. Mentre il giudice Giuseppe Casalbore leggeva l’interminabile sentenza con la quale il popolo italiano rendeva giustizia ai morti di Casale, Pietro Condello stava dignitosamente appoggiato a una balaustra, vicinissimo ai giudici popolari. E ogni tanto, ma solo ogni tanto, si passava sugli occhi e sul viso un fazzoletto candido piegato in quattro, di quelli di stoffa che non usa più nessuno.
Signor Condello, è contento di questa sentenza?
«Contento? No. È giusta, la pena va bene, ma non c’è soddisfazione per noi. Non c’è denaro, e neppure galera, che possa pagare per quelli che sono morti. Se non li condannavano, allora mi sarei sentito umiliato. Non sono umiliato e non sono contento».
Lei è malato di asbestosi, può spiegare cosa significa?
«Significa che sono stato più fortunato di chi è morto di mesotelioma. Significa che ho un’invalidità  cronica del 38 per cento. Da vent’anni mi manca il fiato, spesso mi devo attaccare alla bombola dell’ossigeno, ogni notte dormo con tre cuscini dietro la schiena sennò mi sento soffocare. Qualche giorno all’anno vado a Varazze, in Liguria, il dottore dice che quell’aria mi fa bene, poi però torno sempre a Casale, ci sono i miei figli, non voglio andarmene».
Adesso, con i 35.000 euro del risarcimento, potrà  andarci di più, al mare…
«Non so. Se i miei figli sono d’accordo, andremo di più. Ma 35.000 euro non sono nulla per chi è malato come me, io posso solo sperare di morire il più tardi possibile».
Che cosa faceva alla Eternit?
«Sono entrato nel 1966 e ci sono rimasto per 24 anni. Facevo il facchino: scaricavo dal treno che fermava lì vicino i sacchi pieni di amianto blu (la micidiale crocidolite, importata dall’est europeo, i cui effetti cancerogeni erano noti già  negli anni Sessanta, ndr) e me li caricavo in spalla, trenta chili. Ognuno di noi aveva un coltello, quando arrivavamo vicino alla tramoggia li gettavamo sopra, li tagliavamo e quella li portava agli operai e ai macchinari che lavoravano l’amianto».
Che cosa le fa più rabbia?
«Quello che mi ha assunto, una persona che conoscevo. Lui lo sapeva già  che l’amianto faceva morire le persone, ma non mi ha detto niente. Una volta all’anno ci facevano i raggi X, a tutti quanti, ma non era una cosa fatta bene, era una presa in giro. Se provavi a protestare ti mandavano al “Cremlino”, il reparto di punizione. Però è stato proprio quando sono entrato in fabbrica io che è cominciata la lotta, poco per volta si è iniziato a capire che dovevamo difenderci».
Perché viene in tribunale con la sua tuta? Non ha voglia di buttarla via?
«Tanto non me la posso dimenticare. Sono andato fino a Parigi con questa addosso, a un incontro con altri operai che avevano lavorato nell’amianto. Inutile che me la tolgo, meglio portarla per chi non può più farlo. Ogni volta mia moglie me l’ha lavata e stirata».
Che cosa ricorda dei suoi colleghi che sono morti?
«L’ultimo l’abbiamo accompagnato al camposanto 8 giorni fa. Sono stato tanto negli ospedali, un po’ per le mie visite un po’ per andare a trovare quelli che morivano, poi ho smesso di andare a vederli, era terribile. Mentre il giudice leggeva i loro nomi, li ho ricordati dentro di me, tutti quelli che ho potuto».
Che cosa le sembra più ingiusto?
«Primo, che sono morte tante persone che non avevano mai lavorato nella fabbrica. Non è che sia giusto se muoiono gli operai, a noi non dicevano la verità , ma chi è morto perché aveva lavato una tuta o respirato l’aria sporca che c’è a Casale, e ci sarà  ancora per quarant’anni, quello è ancora più ingiusto. Secondo, che il sindaco di Casale abbia pensato di prendere 18 milioni di euro in cambio dei morti. È una vigliaccheria, non ci doveva pensare».
Nel frattempo, il sindaco, Giorgio Demezzi, ha rinunciato a quei soldi. Ma Pietro Condello pensa che sia il minimo che poteva fare, e non gli perdona di averlo anche solo immaginato.


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