by Editore | 27 Febbraio 2012 2:44
NEW YORK – Di fronte ai dati Eurostat sui bassi stipendi italiani parla di «imbarbarimento e impoverimento del nostro mercato del lavoro». Promette una riforma che «riporti i capitali in Italia», ma lasciando «per ultimo l’articolo 18». La flessibilità , ci spiega, non la dobbiamo «realizzare perché la chiedono l’Europa e il Fondo monetario, ma perché è nell’interesse dei giovani». Il governo tecnico cercherà fino all’ultimo il consenso di tutte le parti sociali, ma se dovesse mancare «si prenderà le sue responsabilità , perché difende anche quella componente della società italiana che non è rappresentata dalle parti sociali». Il ministro del Lavoro Elsa Fornero è a New York per il meeting dell’Onu contro le mutilazioni genitali femminili, ma accetta di parlare anche della sua agenda italiana, di Sergio Marchionne, della «via americana alla reindustrializzazione», del «superamento del modello sociale europeo» sancito da Mario Draghi. E annuncia un intero capitolo della sua riforma dedicato alle donne, per combattere le discriminazioni, cominciando dalla piaga delle «dimissioni in bianco» con cui si costringono a lasciare il lavoro in caso di gravidanza.
I dati Eurostat sono impressionanti: le retribuzioni italiane sono la metà di quelle in vigore in Germania e Olanda. Salari così bassi e deficit di competitività : questo non chiama in causa l’arretratezza del capitalismo italiano?
«Attenzione, l’Italia ha il paradosso di stipendi bassi e costo del lavoro alto, per due ragioni. Una è la pressione fiscale, quindi la differenza tra salario netto e lordo che è maggiore rispetto ad altri Paesi. Un’altra è la produttività , che incide sul costo del lavoro per unità di prodotto. Certo, se l’impresa lesina gli investimenti, la produttività perde terreno rispetto ad altri Paesi. A questo c’è chi risponde come Sergio Marchionne: datemi la stessa flessibilità che ho negli Stati Uniti e investirò di più».
Lei avrà presto un incontro con Marchionne, cosa pensa della sua terapia “americana”? La Chrysler è rinata, ma con salari dimezzati per i nuovi assunti.
«Marchionne è uno che rompe gli schemi, a volte in maniera anche troppo decisa. Il tema che pone è reale: vogliamo che l’Italia rimanga una delle grandi nazioni produttrici di auto? Lui afferma che senza una nuova organizzazione del lavoro non è possibile. Come ministro del Lavoro, devo vigilare che la flessibilità non contenga elementi di discriminazione. Un esempio relativo alle donne, che voglio verificare: tra le assenze ingiustificate non può figurare l’assenza per maternità , non la si può penalizzare».
L’America di Obama registra qualche segnale di reindustrializzazione, l’Italia ci riuscirà , al di là del caso Fiat? Che cosa intende per flessibilità buona, flessibilità cattiva?
«La flessibilità cattiva è quella a cui fanno ricorso le imprese per vivacchiare, non per rilanciarsi sui mercati internazionali. Non c’è dubbio che nel mercato del lavoro, la parte più debole è il lavoratore. Tutta la nostra riforma nasce da una profonda sofferenza sociale, per l’imbarbarimento e l’impoverimento del mercato del lavoro in Italia. E’ successo un avvitamento verso il basso, la condizione dei lavoratori è oggettivamente peggiorata. La flessibilità buona è un valore, un vantaggio per l’impresa, e come tale se vuoi usarla devi pagare di più, non di meno. L’aggiramento dell’articolo 18 oggi avviene alla grande, è nei fatti. Le piccole imprese hanno a disposizione contratti che costano poco e sono flessibili, le grandi si fanno i loro contratti. Perciò noi il contratto a tempo determinato lo faremo pagare di più alle imprese. Certo, non è solo la riforma del mercato del lavoro che può fare ripartire il Paese, però è considerata cruciale. Un cambio di regole non basta da solo, ma può determinare un atteggiamento meno sfavorevole negli investitori internazionali e in quelli italiani. Sento ancora troppi imprenditori che sono pronti a chiudere per trasferirsi in Serbia e in Croazia».
La soluzione è adeguarsi alla Serbia e alla Croazia?
«No, non dobbiamo inseguire quei modelli. Anche perché non credo che quei Paesi abbiano operai con le stesse capacità . Il nostro know how è un patrimonio. Come salvarlo? Io mi sto occupando della De Tomaso: rinascerà investendo sull’auto di lusso da produrre in Italia e da vendere in Cina, con capitali cinesi? Io accendo un cero alla Madonna, nella speranza che questo investitore ci sia. Perché la De Tomaso vuol dire mille famiglie dal futuro incerto, e dietro mille famiglie c’è un capitale umano, un saper fare antico. Se si disperde questa ricchezza, è il Paese intero che s’impoverisce».
Draghi nell’intervista al Wall Street Journal ha parlato di fine del modello sociale europeo.
«Io conosco bene la tradizione del nostro Welfare nato dal volontariato religioso, i nostri “santi sociali” come Don Bosco. Su quella storia s’innestò un sogno nordico, di un Welfare ricco capace di accompagnarci per tutta la vita nelle situazioni di bisogno. Oggi il colpo di grazia a quel Welfare gliel’ha dato il debito, che trasferisce oneri sulle future generazioni e quindi è il contrario dell’equità . La crisi finanziaria ha frantumato quel sogno importato dal modello nordeuropeo. Le riforme oggi dobbiamo farle non perché richieste da Bruxelles o dal Fmi, ma perché i vecchi equilibri soddisfano solo una parte della società italiana, e i giovani sono perdenti».
Fino a che punto questo governo tecnico si ritiene vincolato dalla concertazione, e cerca l’accordo sulle riforme con tutte le parti sociali?
«Noi ci impegniamo nella ricerca di una soluzione condivisa, la disponibilità al dialogo è autentica. Sono pronta a cambiare opinione, per esempio sulle “associazioni in partecipazione” tra lavoratori, dove sembra prevalere l’abuso e la mancanza di tutele del lavoratore. Sarei felice di portare a casa una buona riforma del lavoro con l’accordo di tutte le parti sociali. Ma un governo tecnico guarda a tutta l’Italia, comprese quelle componenti non rappresentate dalle parti sociali. Se l’accordo non si riesce a trovare, il governo tecnico ha il dovere di andare avanti, fermo restando che l’ultima parola spetterà al Parlamento».
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