“Gliel’ho fatta sotto il naso” la sfida del contadino anarchico che per i duri è già  un eroe

by Editore | 28 Febbraio 2012 10:11

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CHIOMONTE – «OK, non ti fare male, ciao Luca…». Sono le otto e mezza del mattino passate da poco, ieri, quando lo speaker della storica emittente antagonista torinese Radio Black conclude il lungo collegamento telefonico con Luca Abbà , che, a dieci metri di altezza, sembra felice: «Ce l’ho fatta a fargliela sotto il naso un’altra volta, i poliziotti mi guardavano allibiti…». Pochi minuti più tardi, Luca volerà  giù dal traliccio dove si è arrampicato, dopo aver toccato i cavi dell’alta tensione. Non è per caso se quest’uomo di 37 anni che nella sua cascina del Cels, sopra Exilles, ospitava un po’ tutti, cani compresi e ora sta lottando per sopravvivere in una camera sterile del Centro traumatologico di Torino, rischia di diventare uno dei simboli più drammatici nella storia dei no Tav. Non è per caso, perché è da quando è un ragazzo che fa di tutto per esserci sempre, per essere contro, per mettersi in prima fila, e per fare il duro. 
Antonio Ferrentino, per anni sindaco e presidente della Comunità  montana, a sua volta politico simbolo dei no Tav fino a poco tempo fa quando ha scelto la strada della trattativa, scuote la testa sconsolato, non si dà  pace: «Luca, lo conosco da quando era giovanissimo, abbiamo fatto qualcosa insieme, poi dopo Venaus ci siamo persi di vista, lui ha avuto un’evoluzione radicale… ma di fronte a questa disgrazia non voglio parlare delle sue posizioni, spero solo che se la cavi». Dopo Venaus, cioè dopo gli scontri sanguinosi con la polizia che nel dicembre del 2005 provocarono decine di feriti, e spaccarono il movimento. E Lele Rizzo, leader di Askatasuna, il centro sociale torinese da sempre presente tra i no Tav, chiarisce nell’assemblea sull’autostrada: «La situazione da oggi è cambiata e la colpa non è nostra. Quello che abbiamo fatto finora non basta più, dobbiamo spostarci». Un annuncio che molti leggono come il trasloco fin nel cuore della città  delle proteste più clamorose. 
Lui invece, Luca, dalla valle non se ne è mai andato. Suo nonno Eligio era il capogruppo degli alpini di Exilles, in una zona dove tutti, e i no Tav prima di tutti, hanno un lontano parente che è stato partigiano o quanto meno alpino, e coltivano una mitologia che non dà  sempre buoni risultati, come racconta la storia della locale cellula di Prima Linea. Ma Luca Abbà  è nato nel 1975, e ha dovuto accontentarsi delle leggende. Quando nel 1998 Soledad Rosas e Edoardo Massari (Sole e Baleno per amici e compagni) si uccidono dopo l’arresto, accusati di attentati dinamitardi contro la Tav, lui è ancora un giovanotto, e fa appena in tempo a conoscerli. 
Da ragazzo, fa il giardiniere per i Comuni di Villar Focchiardo e Bussoleno, nella parte bassa della valle, dove la protesta contro il treno veloce Torino-Lione è più viva. Poi si dedica all’agricoltura, come racconta online con un certo orgoglio: «Per chi non mi conosce sappiate che io abito da dieci anni in una borgata dell’alta valle Susa, nella casa dove nacque mio padre e dove hanno vissuto fino alla morte i miei nonni, sono coltivatore diretto da anni e vivo del reddito che mi fornisce la terra tramite i suoi prodotti, faccio anche saltuari servizi di giardinaggio e il tempo che dedico (volentieri) alla lotta No-Tav lo ritaglio tra il lavoro e le mille faccende della vita di campagna. L’amore per la terra e per questa valle mi spinge a difenderla fino in fondo dalle mani avide degli speculatori; invito Esposito (parlamentare Pd, ndr) questa estate a farsi una giornata di lavoro con me al mio ritmo e con i miei orari, voglio vedere se riesce ad arrivare sano a fine serata! Chi mi ha visto lavorare sa cosa intendo». 
Fin dall’inizio, Luca è un anarchico, come testimonia uno degli storici militanti (pacifici) della protesta, Gianni Milano, che fin da ieri mattina era di fronte all’ospedale con la bandiera No-Tav sulle spalle: «Lo conosco da sempre, ci incontravamo ai concerti nella valli occitane del cuneese, per noi è come un figlio». Ora accanto a lui, in quella stanza dell’ospedale che ha curato le vittime del rogo della ThyssenKrupp e che due volte al giorno fornisce bollettini chiari e cautamente ottimisti, ci sono i genitori, entrambi sordomuti, che chiedono e ottengono nel proprio linguaggio le condizioni del figlio, la sorella, la compagna. 
Gli amici stanno sotto, in strada: i giovani punk pieni di piercing che minacciano i giornalisti fianco a fianco con i “Cattolici per la difesa della valle” che alle nove di ieri sera hanno iniziato a pregare per Luca. E stanno sopra, in valle, dove le diverse anime del movimento, sindaci e anarchici con le maschere antigas, centri sociali di ispirazione comunista e filosofi come Gianni Vattimo (parlamentare europeo dell’Idv), insieme ai sindacalisti della Fiom che ieri hanno promosso “scioperi spontanei” nella zona, continuano a opporsi al treno. Tutti, silenziosamente, da laici o da credenti, pregano perché il giovane uomo nella stanza sterile non debba lasciare la sua vita per diventare un simbolo. C’è chi prega perché è un amico, e chi invece lo fa perché teme quel che potrebbe accadere.

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