“Dobbiamo investire sull’agricoltura solo così battiamo povertà  e malattie”

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ROMA – «Gli investimenti nell’agricoltura sono la miglior arma contro la fame e la povertà , e intorno ad essi passa la linea di demarcazione fra la vita e la morte per centinaia di milioni di persone. Se volete prendervi cura dei più poveri e sfortunati, dovete prendervi cura dell’agricoltura». Quando avevamo incontrato Bill Gates oltre vent’anni fa a Seattle, era un grintoso e nervoso amministratore delegato che non guardava in faccia nessuno. Oggi parla con il carisma di un capo di Stato. Delinea strategie con pacata risolutezza, prefigura scenari possibili, esemplifica costi e benefici. Ma non più in nome della Microsoft, l’azienda che ha fondato nel 1975 quando aveva vent’anni, fattura 70 miliardi di dollari con 92mila dipendenti in ogni angolo del pianeta e ora ha lasciato nelle mani dell’antico compagno di studi Steve Ballmer: ormai si dedica anima e corpo alla Bill&Melinda Gates Foundation, la charity che ha creato quindici anni fa con la moglie, a sua volta ex dirigente Microsoft, e attraverso la quale ha già  donato qualcosa come 28 miliardi di dollari. Una cifra destinata a raddoppiare in dieci anni, durante i quali il secondo uomo più ricco del mondo (dopo il messicano Carlos Slim) ha promesso di devolvere in beneficenza il 95% della sua fortuna. Forte di queste certezze, Gates è venuto a Roma per la sessione annuale dell’Ifad (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo).
Qual è il contributo, oltre a quello finanziario, che sente di poter dare agli sforzi mondiali per migliorare la resa dei campi, la qualità  dei raccolti, la distribuzione dei prodotti agricoli, le condizioni di vita nei Paesi in via di sviluppo?
«Quello di migliorare su tutti questi punti. Non c’è solo bisogno di finanziamenti: la comunità  internazionale degli agricoltori deve essere più innovativa, organizzata, efficiente. Per questo, sei anni fa con Melinda abbiamo deciso di impegnarci non più solo contro le malattie più terribili del pianeta (malaria, tbc, polio) ma anche nell’agricoltura: per portare la nostra esperienza manageriale, ottimizzare gli investimenti, evitare sprechi e dispersioni. È inaccettabile che l’Africa sia costretta ad importare prodotti agricoli quando potrebbe essere un esportatore formidabile». 
Proprio la sua capacità  di portare un contributo da businessman agli aiuti allo sviluppo, l’hanno portata in testa nel toto-nomine per la presidenza della Banca mondiale…
«Sinceramente non penso che sarei disponibile per un incarico del genere. Ho lasciato l’azienda per impegnarmi a tempo pieno nella Fondazione, ed è quello che intendo continuare a fare. E poi guardate che la Banca Mondiale ha fatto passi da gigante negli ultimi tre-quattro anni sotto il profilo dell’efficienza. Non è più quell’istituzione burocratica, polverosa e autoreferenziale di un tempo. Certo, molto resta da fare ma ha uno staff motivato in grado di migliorare ancora. Sarà  per noi un partner sempre più prezioso».
Su quali progetti siete concentrati in questo momento?
«Interveniamo a diversi livelli. Finanziamo piani di ricerca scientifica, in occidente o anche, sempre più spesso, negli stessi Paesi interessati, per la selezione delle migliori sementi: riso in grado di sopravvivere sott’acqua anche per settimane, una situazione frequente in molte zone tropicali, o grano che può crescere in terreni acidi o salini come sono quelli di tante aree sub-sahariane. E poi curiamo che essi vengano distribuiti presso, per esempio, i piccoli agricoltori africani, ovvero la stragrande maggioranza di quanti si dedicano al suolo in regioni fra le più povere nel mondo. Per di più questi agricoltori usano dieci volte meno fertilizzanti dei loro “concorrenti” su terreni che sono fra i più degradati del mondo. Tutti questi fattori fanno sì che i raccolti siano da due a cinque volte più scarsi della media. Si tratta di aiutarli non solo a comprare i fertilizzanti, ma anche a scegliere le piante che è più conveniente coltivare. Loro sono bravissimi: un gruppo di agricoltori kenioti ha creato senza nessuna ingegneria genetica la cassava, una varietà  di mais più resistente e redditizia, che ora stiamo aiutando a diffondere in tutta la regione».
Della World Bank ci ha detto, ma con le altre organizzazioni internazionali, a partire appunto dall’Ifad, collaborate?
«Certo, è la chiave del successo: l’Ifad ma anche la Fao e il World Food Programme. Però è indispensabile, e questo sono venuto a dire a Roma, che tutte e tre queste istituzioni cambino approccio, seguendo appunto il cammino della Banca Mondiale, altrimenti la lotta contro la povertà  e la fame sarà  perduta irrimediabilmente. Le pratiche utilizzare sono ancora vecchie e inefficienti. Dobbiamo lavorare tutti insieme per raggiungere gli obiettivi, e dobbiamo farlo con metodi più innovativi, usando per esempio le possibilità  offerte dalla tecnologia digitale. Non lo dico per il mio background, ma l’hi-tech di rete è in grado di dare un contributo straordinario alla produttività  e all’efficienza in agricoltura. Considerate che se i piccoli agricoltori dell’Asia del Sud e dell’Africa sub-sahariana riusciranno a raddoppiare i loro raccolti, come è tecnicamente possibile, 400 milioni di persone si riscatteranno dalla povertà . È questa la portata della sfida che abbiamo di fronte e che dobbiamo vincere».


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