“COSàŒ LA MALATTIA DIVENTA UN ROMANZO”

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Che cosa spinge un figlio a scrivere un libro sull’Alzheimer che ha colpito il padre? Sono i sensi di colpa per non aver saputo o voluto parlare col padre quando c’era ancora tempo? Arno Geiger l’ha fatto (Il vecchio re nel suo esilio, Bompiani, pagg. 168, euro 16) realizzando un libro commovente, sensibile, che riesce a togliere alla malattia gran parte della sua aura negativa. In Germania ha fatto scalpore, prima del suo libro, quello di Tilman Jens, figlio di un illustre letterato, sul padre Walter Jens, anche lui colpito da Alzheimer.
Per un figlio, l’identificazione col padre è così forte da rendergli impossibile accettare che il suo principale simbolo di autorità  sia colpito da demenza?
«Sì, anche se ogni caso è diverso dall’altro. Ogni famiglia è infelice – o felice – a modo suo e non sta certo a me giudicare. Ma penso che Walter Jens sia stato un padre molto dominante se il figlio pensa addirittura che si sia rifugiato nella demenza per sfuggire al confronto con le proprie responsabilità , lui uomo liberale di sinistra, dopo che era venuto fuori che da giovane era stato iscritto al partito nazista. Quando ho letto il libro ho pensato che è difficile immaginare un padre più potente di così, uno che perfino la demenza non la subisce ma la vuole – un superuomo. A mio padre non avrei mai potuto attribuire tanta autorità  e tanta potenza, di lui si può solo dire che è stato colpito da una disgrazia».
La demenza è un tabù fortissimo nella nostra società , forse il più forte. Che cosa spaventa di più?
«Tutto fa spavento. Per esempio, la perdita delle capacità  normali. Nessuno abbandona volentieri quello che ha imparato nella vita, e nella nostra società  siamo stati allevati a mantenere sempre il controllo: se qualcuno si sottrae a questo corsetto civilizzatore, non corrisponde più ai ruoli prescritti, di genitore, di coniuge, lo spavento è enorme. Soprattutto gli inizi della malattia sono difficili. Poi lentamente si riesce a trovare una strada per affrontarla senza disperazione».
Lei in questo libro ci offre le idee, le conoscenze, su quello che conta davvero in situazioni del genere.
«All’inizio ho fatto molti sbagli. Avevo spesso degli scontri con mio padre perché non accettavo l’idea che non volesse fare le cose normali che aveva sempre fatto. Piano, piano ho preso atto che non sarebbe più uscito dall’isola su cui l’aveva gettato la malattia e ho capito che toccava a me costruire dei ponti: se lui non si raccapezzava più nella realtà  degli altri, la sola via per comunicare era entrare in relazione con la sua realtà . Ho capito che era importante per lui che non gli dicessi: hai fatto male, hai sbagliato, ma invece proponessi: ora facciamo questa cosa insieme e anche se non ti riesce più tanto bene non importa, visto che la facciamo insieme. Dapprima uno ha solo paura. Poi mi sono sentito solidale. Dopo tutto l’esperienza di sentirsi estranei, anche a se stessi, è molto umana».
L’essere umano, lei dice, mantiene la propria dignità  anche quando è andato perduto il raziocinio, che noi consideriamo l’essenza dell’uomo.
«In realtà  questo non è proprio esatto perché di mio padre non posso dire che non sia un uomo raziocinante. Sa che cosa è il bene e che cosa è il male, distingue un gesto amichevole da uno ostile. Ha un sistema di valori, forse non lo può formulare, forse nemmeno afferrarlo, ma certo la dignità  gli resta. Questa può venire lesa solo dall’esterno, per come viene trattato».
Come è riuscito a stabilire rapporti diversi, creare una nuova quotidianità ? 
«Concentrandomi sul presente. Il passato è terra bruciata. Certo possono esserci sensi di colpa per non aver saputo parlare quando c’era ancora tempo, ma adesso è inutile rivangare, sul quel terreno non c’è più nulla da fare. Naturalmente tutto questo cambia da persona a persona. Con mio padre la comunicazione è possibile quando gli si dà  un senso di sicurezza e di intimità . Quando si sente benvoluto, quando percepisce solidarietà  intorno a lui allora ride, diventa così spontaneo, così allegro e spiritoso che anche noi siamo felici e l’atmosfera in famiglia cambia istantaneamente».
Mettere una pietra sopra il passato può essere anche liberatorio. 
«Il passato perde di significato. Siamo figli del presente e questo in un certo senso è liberatorio. Spesso è meglio guardare avanti. Neanche l’insicurezza sul futuro importa molto, perché nonostante ognuno di noi abbia le proprie preoccupazioni, a mio padre tutto questo non interessa più, interessa solo il momento in cui ci si abbraccia. C’è perfino un nuovo aspetto di tenerezza fisica: mio padre, figlio di contadini cattolici austriaci, non aveva mai avuto nessuna dimestichezza col corpo, quand’ero bambino era incapace di tenermi per mano. Mentre ora lo fa. Mio padre è sempre stato un po’ misantropo, ha sempre parlato pochissimo e questo mi turbava, soprattutto perché anch’io ero diventato un po’ così. Mi pesava la sensazione che qualcosa mancasse nella famiglia, che ci fossero problemi di cui non si parlava mai, che una patina di sconforto aleggiasse su tutti noi rendendoci infelici».
E ora?
«Una famiglia può essere una cosa terribile oppure meravigliosa. In questa crisi la nostra famiglia è diventata più unita. E questa è una fortuna, non c’è nulla di meglio dei rapporti famigliari quando funzionano. E io credo sia merito di mio padre, di come ha cresciuto noi fratelli, se siamo rimasti vicini. Perché occuparsi di un demente ti consuma, è una cosa molto dura. Ci deve essere un legame forte perché uno non scappi, non scompaia».


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