by Editore | 29 Febbraio 2012 10:19
Nel dibattito che si è aperto sulla regolamentazione delle professioni c’è una sedia vuota: il mercato. Nonostante avvocati, ingegneri, consulenti e architetti stiano vivendo la fase più difficile della loro attività , con studi chiusi e fatturati falcidiati, fautori e avversari della liberalizzazione stentano a legare le loro tesi, di matrice prevalentemente giuridica, con una ricetta che abbia una valenza economica e in qualche maniera leghi la riforma delle professioni a un percorso di uscita dalla crisi. O quantomeno a un abbozzo di reazione. Non è un caso come nel discorso pubblico di queste settimane si stenti a pronunciare la parola “terziario”, quasi rappresentasse un’offesa e non il richiamo a una visione integrata dell’economia. Eppure quando si tratta di metter giù un’analisi degli asset del sistema Italia tutti si sbracciano per sottolineare il ruolo decisivo della piccola e media impresa che dà occupazione, innerva l’intero territorio italiano e comunque ha mostrato una capacità di tener botta che non era scontata. Ma i Piccoli sono davanti a un passaggio delicato, l’allungamento sine die della crisi li ha posti davanti a interrogativi di carattere strategico.
Prendiamo il credit crunch e la difficoltà di mettersi d’accordo su che cosa oggi voglia dire selezionare il credito. Da una parte ci sono banche estremamente prudenti nei nuovi impieghi e dall’altra ci sono imprese che di fronte alle discontinuità della crisi dovrebbero stendere un business plan ma non lo fanno e avrebbero bisogno di importare in aziende nuove competenze finanziarie/di marketing/di conoscenza dei mercati emergenti. Non è ipotizzabile che questo iato sia riempito dalle competenze dei professionisti italiani? È così insensato pensare di far evolvere la relazione oggi molto statica (da «ottimizzatore fiscale») tra commercialista e piccolo imprenditore e farne un elemento di crescita culturale prima nei confronti del sistema bancario e poi della competizione di mercato?
Anche in materia di aggregazione delle piccole aziende e di costruzione delle reti di impresa gli spazi che si aprono per gli studi professionali sono larghi. Sia sul piano giuridico per tutti i nuovi quesiti che la novità del soggetto «rete» pone ma anche in termini sostanziali. In definitiva se si vuole riposizionare la spina dorsale del nostro sistema produttivo dentro una competizione più dura e selettiva è necessario un valore aggiunto, una competenza che si riveli decisiva e che possa mettere in grado i distretti e non solo loro di ri-specializzarsi, ovvero di aggiornare il vecchio modello produttivo aggiungendo tecnologia, brand, design e quant’altro. Perché di tutto ciò si parla poco? Mistero.
Secondo tema: la pubblica amministrazione. È un orientamento più che consolidato che lo Stato debba in qualche modo dimagrire, diventare più efficiente ma anche più snello. È altrettanto insensato avviare e rafforzare un processo di devoluzione dallo Stato alle professioni di tutta una serie di competenze che oggi sono pagate dalla fiscalità generale e che domani invece sarebbero a carico dei soli fruitori? Una proposta di questo tipo non avrebbe bisogno di «grandi riforme» ma potrebbero marciare fors’anche a legislazione vigente in una logica di sussidiarietà verticale. Il tema era stato lanciato qualche tempo fa dal professor Gian Paolo Prandstraller e di recente ha trovato l’appoggio di un giovane studioso, Luca Antonini, che per conto dell’ex ministro Giulio Tremonti ha lavorato sui temi del federalismo fiscale. Perché non se ne parla? Mistero. Tra tante amnesie e sottovalutazioni c’è da sottolineare — in controtendenza — il valore della lettera-progetto che i presidenti degli ordini degli architetti, degli ingegneri, dei geologi e degli agronomi, hanno scritto nei giorni scorsi. Freyrie, Graziano, Sisti e Zambruno, pur essendo critici nei confronti della riforma governativa, fanno un passo avanti e chiedono di non approvare solo delle liberalizzazioni-senza-lavoro. Dopo le regole ci sia, dunque, una seconda fase di provvedimenti dedicati alla crescita del mercato. Affinché “possa aumentare il Prodotto interno lordo e si aiuti l’Italia a uscire dalla crisi”.
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