Perché conviene investire sulle donne

by Editore | 20 Febbraio 2012 6:31

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L’uovo di Colombo sta lì, nascosto nei testi che riempiono gli scaffali delle librerie e che finalmente sono usciti dalle loro nicchie protette per finire nelle vetrine: fate lavorare le donne e metterete le ali al Paese. Sta nelle ricerche e nei numeri che prestigiose istituzioni – prima fra tutte la Banca d’Italia – ripetono: se quel famoso impegno preso a Lisbona, il 60 per cento delle donne occupate, diventasse realtà , in Italia il Pil salirebbe del 7 per cento. Sta nei titoli dei convegni ai quali partecipano con convinti cenni di assenso ministre e ministri. L’ultimo, a Roma, quello dell’associazione Valore D che nella promozione delle donne ai più alti livelli di responsabilità  ha coinvolto oltre cinquanta grandi aziende e che instancabilmente batte il chiodo sui benefici della diversity.
E se qualcuno prova a contrastare l’inesorabile avanzata delle donne al lavoro sventolando la triste bandiera della crisi economica, ecco pronta la risposta: abbiate coraggio e lanciate il pink new deal. Sono tre donne, Daniela Del Boca, Letizia Mencarini e Silvia Pasqua – autorevoli studiose di economia e demografia – a confezionare l’ultima provocazione sotto forma di un libro dal titolo inequivocabile: «Valorizzare le donne conviene», edizioni Il Mulino. Propongono una versione riveduta e corretta del roosveltiano New Deal, il piano che permise all’America sfiancata dalla grande depressione di tornare a essere la guida del mondo. Scrivono: un maggior numero di occupate aumenterebbe le entrate fiscali e previdenziali; la crescita dell’occupazione femminile stimolerebbe una maggiore domanda di servizi con un effetto sul prodotto interno lordo; più donne al lavoro ridurrebbe il rischio di povertà  delle famiglie. Insomma, l’uovo di Colombo.
Solo parole? No. La questione è sotterrata di numeri. Per ogni cento posti di lavoro affidati a una donna, si metterebbe in azione un circuito virtuoso che crea 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi. Se la percentuale di donne impiegate raggiungesse quella degli uomini (dunque oltre il 60% dell’obiettivo di Lisbona), una ricerca della Goldman Sachs sostiene che gli aumenti del Pil arriverebbero fino al 13% nell’Eurozona, fino al 16% in Giappone e fino al 22% nella nostra piccola Italia. A parere della Business School dell’università  di Leeds, invece, se c’è almeno una donna in un consiglio di amministrazione, le probabilità  che l’impresa sia posta in liquidazione forzata diminuiscono del 20%. E nel suo Women Matter, la McKinsey calcola che nel 2040 mancheranno all’appello 24 milioni di posti di lavoro e che se le donne saranno assunte la cifra scenderà  a 3. 
Il fatto è che le donne trovano ancora sulla loro strada ostacoli insormontabili. Anzi: la marcia verso la parità  nel mondo del lavoro sembra inceppata, se è vero che dal 2000 ad oggi, complice la congiuntura economica, la percentuale di donne occupate è diminuita di 2 punti, passando dal 48 al 46. Come se quella che è una questione fondamentale per il Paese fosse invece ritenuta una robetta da donne. Il fatto è che in Italia, la rivoluzione silenziosa delle donne è anche una rivoluzione tradita. Dice Letizia Mencarini: «Rispetto al resto d’Europa, l’Italia negli ultimi quindici anni si è come fermata. Spagna, Francia, Germania, hanno visto le donne guadagnare posizioni, noi invece abbiamo di fronte una doppia strettoia». Difficile, tanto più oggi, in tempi cupi, entrare nel mercato del lavoro; e difficile, oggi come ieri, conciliare i ruoli familiari e quelli lavorativi. 
In Italia succede ancora che, se anche cresce il lavoro, non si salgono i gradini della carriera; che l’aumento del part time, invece che in una facilitazione, si trasformi in una trappola che ti inchioda a ruoli marginali; che il primo impegno resti comunque quello casalingo. Del Boca la chiama «segregazione verticale» e dice che tipici esempi sono i settori della sanità  e dell’istruzione. Nel 2009, nel Servizio Sanitario Nazionale, il 63 % degli occupati erano donne, ma tra i medici erano il 37 e il 77 del personale infermieristico. Nella scuola le donne erano il 78 % (con punte che sfioravano il 90 nelle scuole d’infanzia) e però le dirigenti poco più del 37. Perché, se pure le donne ormai si laureano di più e prima degli uomini, quello che rimane fermo – salvo interessanti ma rari casi che fanno notizia – è l’equilibrio dei ruoli interno alla famiglia. E la mamma, nel vissuto italiano, è sempre la mamma. L’unica in grado di occuparsi dei figli, di riempire il frigo e di preparare il risotto. Quasi incredibile, eppure il 76 % degli uomini (e il 74 delle donne) ritiene che un bambino piccolo soffra se la mamma lavora. In Svezia sono il 25 %.
A proposito di rivoluzioni interrotte: se la prima, quella dell’istruzione, è quasi pienamente compiuta; la seconda, quella del lavoro, negli ultimi vent’anni si è inceppata; la terza, quella culturale, è tutta da compiere se è vero resistono pregiudizi del tipo che le donne che lavorano sono madri peggiori, che i loro figli vanno peggio a scuola, che le stesse, schiacciate dal doppio ruolo, sono infelici. Assunta Sarlo, fondatrice del movimento Usciamo dal silenzio, vede chiari e scuri: «Da una parte c’è un Paese, ancora fortemente influenzato dalla Chiesa cattolica, che resiste al cambiamento; dall’altra c’è uno straordinario impegno delle donne nel rompere gli schemi». E così, sabato, a Milano, centinaia di donne si sono ritrovate a parlare della rivoluzione possibile e il 3 e 4 marzo, a Bologna, il network di Se non ora quando, discuterà  di «Vita, lavoro, non lavoro» delle donne. Tanto da far dire a Lea Melandri, 40 anni di femminismo alle spalle, che «c’è davvero qualcosa di nuovo».
Ci sarebbero anche, scrivono le autrici di «Valorizzare le donne conviene», delle cose concrete da fare. Perché fin qui, nemmeno il nuovo governo ha mosso passi decisi nella direzione del pink new deal. E, per cominciare, invece che aiutare, ha penalizzato le donne. Dunque, proprio all’Università  di Torino, la stessa del ministro (o bisogna dire ministra?) Fornero, hanno elaborato una lista di interventi da fare. Dall’indirizzare le donne verso studi scientifici con borse di studio dedicate, come accade in America (e anche nella Regione Toscana) a favorire dal punto di vista fiscale chi assume le donne. Dall’incentivare l’offerta di lavoro femminile, così come raccomandato da Mario Draghi, quand’era governatore della Banca d’Italia a cancellare la norma sulle dimissioni bianco (che colpisce soprattutto le mamme) a trasformare il part time e la flessibilità  in un’occasione per tutti, dipendenti e aziende. Dallo studiare politiche di conciliazione aziendale all’investire – e non tagliare – nei servizi di cura per i bambini. 
E ancora: introdurre un credito di imposta per le retribuzioni più basse (che sono quasi sempre quelle delle donne); far comprendere alle imprese che la maternità  è un costo irrisorio e che quindi non c’è da averne paura. Poi: prevedere sgravi fiscali per chi assume personale femminile, concedere incentivi all’imprenditoria in rosa, prevedere le quote di genere ai vertici delle aziende, far diventare obbligatorio il congedo di paternità . Agire, insomma, sulle leve fiscali, sulle quote riservate e sulla cultura. Un programma realistico, in un momento di tagli e di crisi? Di più: indispensabile per aiutare l’Italia a risalire la china. Mencarini e Del Boca non hanno dubbi: «Queste misure sono un investimento per il futuro, perché valorizzare le donne conviene a tutti».

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