Per la sinistra del futuro
«Mi dicono che sono molto cambiato, per certuni anche troppo. Naturalmente si pensa al socialismo e alle lotte operaie su cui mi ero impegnato. Mi domando: in che cosa sono veramente cambiato e in che cosa invece sono coerente? Il mondo è così cambiato e così in fretta che sarei uno strano tipo se non fossi cambiato anch’io». Queste parole (1992) rappresentano bene l’approccio di Foa alla storia del Novecento e, parallelamente, alla propria vicenda personale. Nel 1991 pubblicò da Einaudi Il Cavallo e la Torre, autobiografia di rara bellezza anche per la forma della scrittura. Quel libro non fu solo il punto di arrivo di un percorso di profonde riflessioni, iniziato alla fine degli anni Settanta, quando Foa avviò una revisione culturale in linea con i rivolgimenti epocali che avrebbero coinvolto la sinistra dopo l’89. Da allora le riflessioni sul passato continuarono e Foa, nonostante vivesse a pieno il presente e fosse incuriosito dal futuro (da qui la voglia di progettare e di approfondire), continuò a interrogarsi sul Novecento e sull’evoluzione della propria identità .
Il libro Passaggi, domani in edicola con il «Corriere», è quasi un’integrazione, una prosecuzione dell’autobiografia. Coerentemente con il proprio carattere, Foa tentò di capire che cosa accadeva dentro e intorno a sé. I pensieri, annotati quasi come in un diario, coinvolgono aspetti intimi della sua vita e temi più generali, fasi centrali della vita politico-sindacale e questioni «pubbliche» che attengono all’economia, al diritto, alla religione, al costume. Da ogni pagina traspare la sua capacità di proporre originali chiavi di lettura, con una precisazione: Foa mai smise di dubitare, innanzitutto di se stesso. Il cerchio, per lui, antidogmatico pure nei periodi di maggior radicalismo politico-sindacale, non si poteva chiudere. Ma proprio l’impossibilità di fornire soluzioni definitive ai problemi, con gli scenari politico-culturali e socio-economici in sempre più rapida evoluzione, rende la sua ricerca, intrisa di autoironia e non priva di stoccate al vetriolo, tanto affascinante.
Scrive sulla propria formazione, su fascismo e antifascismo, carcere e Resistenza, Gl e P. d’A. Ritorna su socialismo e comunismo, sulla Cgil e il suo lavoro sindacale, sul rapporto tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Riflette sul suo essere ebreo e sulla Shoah, sulla centralità della storia, sui giovani e le donne, su snodi importanti degli anni Settanta e Ottanta, su Berlusconi e la destra italiana, sul centrosinistra, sul pacifismo e le guerre, sul Risorgimento e l’Italia liberale. Parla dei suoi familiari e degli amici, incontrati in decenni di lotte e di riflessioni sui «massimi sistemi» e su questioni apparentemente più marginali. Si interroga sul lavoro che cambia e sull’evoluzione del capitalismo, su Stato e mercato, sull’Europa e il federalismo da Ventotene all’euro.
Sul tribunale speciale, che nel 1935 lo condannò a 15 anni, nel 1991 ricorda: «Ero in carcere quando seppi che una legge aveva prorogato per altri cinque anni la vita di quel tribunale che era scaduto. Scrissi a casa rallegrandomi: se avevano ancora bisogno di specialisti per condannarci voleva dire che c’erano ancora dei giudici in Italia di cui i fascisti non potevano fidarsi. Naturalmente la mia lettera fu soppressa dalla censura». Nel 1993, forse non immaginando quanto le sue parole oggi siano attuali, scrive: «Nel decennio Ottanta i liberisti hanno creduto di celebrare il loro trionfo sbaragliando le ideologie. Ma il liberismo è una ideologia, la più sfacciata delle ideologie: l’appello al mercato non è espressione di volontà individuale ma richiamo alla disciplina verso un determinato sistema economico e sociale». Nel 1994, anno del successo dell’«unto dal signore», annota: «Inverosimile è l’accanimento anticomunista adesso che il comunismo è caduto. L’Italia di Maramaldo dà spettacolo. Forse è l’affanno di chi senza i comunisti non si sente più esistere, tanto era dipendente da loro. Altrettanto inverosimile è però il silenzio dei comunisti sul loro passato, il loro rifiuto di pensarlo».
Un contributo alla riflessione sul tema sarebbe venuto dalla pubblicazione, nel 2002, di un intenso scambio di lettere con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin. Penetranti le considerazioni su alcuni influenti e discussi intellettuali e dirigenti politici (Berlinguer, Panzieri, Craxi, Bertinotti); su ex compagni di lotta e figure centrali degli anni giovanili (Rosselli, Gobetti, Mila, Natalia Ginzburg, il cugino Primo Levi, Bobbio, Pajetta, Diena, Carlo Levi); sui presidenti della Repubblica prima di Ciampi. A questo proposito, nel 1999, scrive: «Ne salvo solo due. Tutti gli altri, eccetto Pertini e Scalfaro, offrono un quadro di incertezza, di oscurità , tutto sommato di instabilità ». Intenso il ritratto di Giulio Einaudi (1999), la cui conclusione appare particolarmente significativa anche per l’elaborazione di Passaggi: «L’ho conosciuto ragazzo saggio e consapevole di sé e l’ho frequentato da vecchio ricco di fanciullesca curiosità verso il mondo. Il giorno che uscirono le mie lettere carcerarie mi telefonò per farmi gli auguri e si invitò a cena. Appena arrivato mi disse subito che non era stato d’accordo con quella pubblicazione troppo carica di elementi famigliari e che insisteva invece perché scrivessi un libro sull’oggi e il domani, sui nodi da cui liberarmi. È quello che sto facendo».
Sempre nel 1999, ottimista e proiettato verso il futuro quasi fosse un ragazzo, scrive: «Il nuovo secolo potrebbe presentarsi poco attraente. Ma non posso cedere alla tentazione di guardare il soffitto e lasciarmi vivere finché dura. Quando si è vissuti così a lungo e così bene non si può abbandonare. Devo darmi un progetto». E a un’intervistatrice che, nell’ultimo giorno del secolo, gli chiede di dire qualcosa ai giovani sulla sinistra, Foa risponde: «Se tentiamo di descriverla non ci credono, forse è possibile proporgli di cercarla insieme». Nel 1997, sintetizzando il suo approccio alla vita, aveva scritto: «Nonostante le sue nequizie ho sempre amato il mondo ed esso mi ha ricambiato». Un rapporto d’amore che sarebbe continuato per altri undici anni, lasciando in molte persone tracce indelebili di umanità e voglia di futuro.
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