by Editore | 16 Febbraio 2012 8:00
Dire “partiti” significa dire “sfiducia”, “discredito”. A scatola chiusa, senza il beneficio del dubbio. Se si può scegliere, si vota contro un partito, o contro un suo candidato. Se non si può scegliere, ci si tura il naso; o, sempre più spesso, non si vota. Anything but parties; qualunque cosa, purché non siano i partiti. L’agonia (in Italia, tra governo dei tecnici e risultati delle primarie) o la cattiva salute (in molti Paesi occidentali) di quella che era stata la creatura privilegiata della politica del Novecento, il partito, è una questione politica di prim’ordine.
Nonostante il pregiudizio della superiorità del “tutto”, sulla “parte”, che lo ha fatto definire spesso come setta, come fazione, nella storia il partito è stato un potente motore della politica; per non parlare della polis, di Roma, del comune medievale, è attraverso i partiti che, dalla metà del Seicento, in Inghilterra, e poi in tutta Europa, passa la socializzazione alla politica. Mentre si forma lo Stato moderno, in parallelo i partiti sono il canale attraverso cui si affermano gli interessi materiali e morali dei protagonisti della società , sia delle élites borghesi che lottano per il potere politico, sia del popolo che entra sulla scena della storia. È alla fine del XIX secolo che si formano i partiti di massa – dapprima socialisti, in seguito anche cattolici –; e questi non sono più soltanto canali d’espressione degli interessi di parti della società , ma hanno anche forti finalità politiche, dettate da ideologie talmente cogenti che spesso il partito si presenta non come portatore di un’opinione ma come incarnazione di una verità . Il partito di massa è caratterizzato inoltre da una complessa organizzazione interna (dominata da professionisti della politica, secondo la “legge ferrea delle oligarchie”). Sono i partiti di massa il cuore della politica del Novecento: sia in quanto partiti che occupano lo Stato come “partiti unici”, sia in quanto partiti democratici, che in quanto snodo fra il popolo e le istituzioni, sono il perno dello Stato sociale.
I partiti sono dunque una sintesi di interessi, progetti, organizzazione; e sono più affini che estranei rispetto allo Stato (come del resto aveva colto Gramsci), poiché hanno nello Stato – nella sua critica, nella sua riforma, nel suo controllo – il loro orizzonte teorico e pratico; sono l’elemento dinamico e partecipativo della politica moderna. E insieme a questa deperiscono. Per diversi motivi: per la loro corruzione e rapacità , certamente; ma anche per la diffusa percezione della loro inutilità in contesti in cui la politica è caratterizzata dai lampi dell’eccezione, dall’emergenza, e i partiti – organizzazioni burocratiche – devono cedere il passo al Capo e al suo decisionismo; o ancora perché il consenso non passa più attraverso la mediazione dei partiti ma attraverso l’immediatezza di un abile messaggio populistico; o infine perché sopra la politica si afferma la tecnica, e solo agli esperti, e non ai politici, viene concessa fiducia. Infine, perché chi protesta contro l’ordine, o il disordine, del mondo non trova più nei partiti una sponda, una voce, una consonanza; perché chi vuole fare politica si sente costretto a vedere nei partiti un ostacolo, e ad abbracciare l’antipolitica. Insomma, tanto per chi è interno alla idea della fine della politica, quanto per chi crede nel rinnovamento della politica, i partiti fanno parte del problema e non della soluzione.
E il problema è l’eclisse della politica nella sua forma moderna, progettuale, emancipativa; e non a caso, infatti, insieme ai partiti deperisce anche lo Stato, sia pure con diversa velocità e secondo diverse linee; entrambi, Stato e partiti, non sono più il cuore e il cervello del potere. Che risiede altrove: nelle banche, nei mercati, nelle agenzie di rating e nelle istituzioni della governance economica internazionale. E ciò spiega, tra l’altro, perché la politica non attrae più i migliori – perché mai votarsi a un’attività comunque subalterna? Così, mentre la sovranità degli Stati si inchina alle logiche sovranazionali dell’economia e della finanza, e cerca di amministrare le conseguenze locali di strategie che nascono fuori dallo Stato e lo sovrastano, ciò che resta dei partiti assomiglia sempre più a un insieme incoerente di agglomerati di potere e di affari, a cordate di carrieristi, che legittimano la propria sopravvivenza come ceto politico facendo a meno di organizzazione e di idee, e rappresentando, a livello lobbistico, gli interessi della più disparate categorie.
L’alternativa è un forte ritorno della politica, una reazione a uno sviluppo delle nostre società sottratto al controllo e alla partecipazione dei cittadini; ma anche questa esigenza – che pure circola nella società , benché non maggioritariamente – è disattesa, e anche questo appuntamento sembra mancato dai partiti che soffrono la concorrenza di movimenti anti-partiti – antipolitici, ovvero estremistici (fanatismi religiosi, fondamentalismi nazionalistici, ecc.) –, guidati da leader, o da leaderini più o meno affabulatori.
Ma è evidente che la eventuale nuova volontà dei cittadini di ricostruire il nostro assetto civile non può, se vuole essere vitale, limitarsi a fare affidamento su queste forme di aggregazione politica, come non può farlo sui partiti tradizionali e su ciò che ne resta. La rinascita e la trasfigurazione dei partiti, la loro riforma radicale (a cui certo non potranno essere estranee, oltre alle idee, anche forti personalità disposte a impegnarsi direttamente in politica), resta l’unica via – anche se stretta – perché la politica possa tornare a essere spazio di partecipazione, di inclusione attiva, di consapevole e condivisa libertà .
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