Obama riforma il fisco: meno tasse alle imprese

by Editore | 23 Febbraio 2012 7:23

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NEW YORK – Pagare meno, pagare tutti: sarà  vero anche per le imprese, se passa la riforma fiscale di Barack Obama. Quella che disegna Obama è una profonda semplificazione, lo sfoltimento di una giungla di agevolazioni, detrazioni e deduzioni. Contiene anche un inasprimento della pressione fiscale sulle multinazionali, per scoraggiare la delocalizzazione di posti di lavoro. Ma il segno finale è positivo per le imprese: l’aliquota massima della tassa sugli utili scende dall’attuale 35% al 28%.
Nel settore manifatturiero sarà  possibile godere di un’aliquota ancora più bassa, il 25%, per incoraggiare la re-industrializzazione del Paese di cui già  s’intravede qualche segnale. Per le multinazionali il presidente prevede una «minimum tax», un prelievo secco che «scoraggi le acrobazie contabili fatte per spostare i profitti all’estero». Naturalmente la proposta di Obama, per quanto ambiziosa, appare cauta rispetto alle promesse lanciate dai candidati repubblicani in lizza per l’elezione presidenziale. E nulla sarà  deciso prima di novembre, quando insieme con l’elezione del presidente si rinnoverà  gran parte del Congresso, finora bloccato dall’ostruzionismo repubblicano. Mitt Romney, il più moderato fra quelli che si contendono la nomination del partito repubblicano, ha più volte evocato un’aliquota netta del 15%. Una percentuale che gli è cara poiché coincide con il prelievo sul suo reddito personale di multimilionario: come molti capitalisti, Romney ha entrate che coincidono con dei capital gain e godono già  oggi di una tassazione agevolata, molto inferiore ai redditi da lavoro dipendente. Obama ha già  presentato la sua proposta di Buffet Tax, la tassa sui milionari che vuole introdurre per garantire che paghino almeno il 30%. La sua strategia per la rielezione assegna un ruolo cruciale al tema dell’equità , dopo decenni di aumento delle distanze tra i più ricchi e la maggioranza della popolazione. I repubblicani al contrario sono favorevoli ad una ulteriore diminuzione delle imposte anche sui più ricchi, attraverso l’introduzione della «flat tax» (aliquota unica) che eliminerebbe ogni progressività  nel prelievo. Ma il nuovo piano presentato ieri da Obama si concentra soprattutto sul trattamento fiscale delle imprese. Anche in questo campo la normativa americana si è complicata nei decenni fino a diventare una giungla, piena di contraddizioni e di ingiustizie. Il segretario al Tesoro Tim Geithner ha presentato la riforma come una «strategia fiscale favorevole alla crescita, che livelli il terreno della concorrenza tra imprese, al tempo stesso garantendo allo Stato le entrate necessarie». L’attuale tassa sugli utili del 35% – denunciata come «la più alta del mondo» dai candidati della destra – colpisce realmente solo una minoranza delle imprese. Sulle 500 società  quotate in Borsa che fanno parte dell’indice Standard & Poor’s, 115 pagano meno del 20% di tasse sui loro profitti. E addirittura il 55% delle aziende americane non paga un solo dollaro di tasse, in un arco di tempo di sette anni, secondo uno studio del Government Accountability Office.
Perfino colossi come Google, Boeing e General Electric, pagano molto meno della «teorica» aliquota del 35%. La spiegazione sta in quella giungla di agevolazioni e concessioni speciali che è stata definita Corporate Welfare, cioè lo Stato assistenziale al servizio delle grandi imprese: la risultante di decenni di pressioni da parte delle varie lobby, ciascuna capace di strappare un trattamento speciale per la propria constituency. Obama punta ad una riforma a gettito invariato, che avrebbe il vantaggio di semplificare il codice tributario mettendo fine alle disparità . Il presidente vuole anche abolire quello che è diventato un incentivo di fatto alla delocalizzazione: la possibilità  per le multinazionali Usa di eludere legalmente la tassazione sugli utili finché non li rimpatriano.

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