Netanyahu: base di F-16 nell’isola del Mediterraneo

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È stato questo uno dei temi principali dei colloqui che il premier israeliano Netanyahu ha avuto ieri a Nicosia, la prima visita ufficiale di un capo di governo dello Stato ebraico nell’isola del Mediterraneo. Secondo la stampa locale, Netanyahu ha chiesto alle autorità  cipriote che i caccia possano essere dispiegati nella base aerea «Andreas Papandreou», sulla costa meridionale di Cipro, allo scopo di «proteggere» i nuovi giacimenti di idrocarburi scoperti nei mesi scorsi al largo delle coste israeliane. Ma alla luce delle forti tensioni tra Tel Aviv e Ankara, la presenza degli F-16 a Cipro rappresenta anche una sfida alla Turchia. «Israele e Cipro sono interessati a un Mediterraneo orientale sicuro e pacifico e sosterranno tutti gli sforzi per garantire che questa regione rimanga pacifica e stabile», ha detto Mark Regev, il portavoce d Netanyahu, riferendosi allo storico conflitto tra Ankara e Nicosia, aggravato dalle scoperte dei giacimenti off-shore.
Israele ha stretto le relazioni con la Grecia e la repubblica greco-cipriota in questi ultimi due anni, di pari passo con l’allentarsi dei rapporti con la Turchia che per decenni era stata sua alleata. I colloqui di di ieri seguono l’accordo che nel 2010 aveva delimitato le «zone economiche esclusive» (Zee) in seguito alla scoperta, nel 2009, di un enorme giacimento di gas che si estende tra i due paesi. C’è anche il progetto di un gasdotto che dalle coste israeliane dovrebbe raggiungere la Grecia passando per Cipro. Le alleanze sul gas mirano a estromettere i paesi limitrofi dalla spartizione delle risorse trovate nel bacino del Mediterraneo orientale. Nei mesi scorsi, Israele aveva inviato navi da guerra a pattugliare le zone da trivellare, prontamente imitato dal governo turco che aveva mosso unità  navali in acque cipriote. La corsa al gas nel Mediterraneo coinvolge anche il Libano. Beirut però è la parte più debole e difficilmente riuscirà  a far valere i suoi diritti contro Israele. 
La stessa debolezza la sconta la Striscia di Gaza. A causa del blocco navale e dell’embargo israeliano (e internazionale), Gaza non può avere accesso ai suoi giacimenti di gas off-shore. Una riserva che avrebbe potuto rendere disponibile già  anni fa – quando il giacimento di gas venne scoperto – un combustibile diverso da gasolio e benzina. Proprio in questi giorni, Gaza è senza elettricità  per gran parte del giorno. L’unica centrale è stata costretta a fermare le turbine per mancanza di gasolio industriale. Con appena il 35% del fabbisogno assicurato dall’elettricità  proveniente da Israele ed Egitto, 1,7 milioni di palestinesi possono contare solo su 5-6 ore di energia al giorno. Tra le cause della crisi c’è anche l’aumento del prezzo del gasolio nel Sinai egiziano, da dove arriva gran parte del carburante che entra a Gaza attraverso i tunnel sotterranei. «La mancanza di elettricità  colpisce anche ospedali e scuole, oltre ad avere ripercussioni sugli impianti di purificazione dell’acqua e sul sistema fognario, senza dimenticare i riflessi nella vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone», spiega al manifesto Rosa Schiano, una fotoreporter italiana da alcuni mesi nella Striscia.
A Gaza, come in Cisgiordania, proseguono anche i presidi a sostegno di Khader Adnan, il detenuto politico palestinese da 61 giorni in sciopero della fame perché posto in detenzione «amministrativa», quindi senza processo, nella prigione di Ofer. L’appello presentato dai suoi avvocati il 13 febbraio è stato rispedito al mittente dai giudici militari. Attualmente, sono 310 i palestinesi in detenzione «amministrativa» (tra i quali 18 deputati), una misura basata sui Regolamenti di Emergenza del Mandato Britannico del 1945. La custodia può durare fino ad un massimo di sei mesi ma è prolungabile all’infinito sulla base di semplici sospetti dei servizi di sicurezza.


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