Nero su bianco, la gioia di scrivere
Nel saggio Journées de lecture Marcel Proust si chiedeva quali giornate della nostra infanzia possano apparirci più intensamente vissute di quelle che abbiamo trascorso «senza vivere», sottratti al tempo dell’esistenza perché sprofondati nella lettura di un libro. Se siamo disposti ad accordare a un simile paradosso un fondo di verità , allora la vita di Wislawa Szymborska, spirata nel sonno lunedì sera nella sua casa di Cracovia, ci apparirà come una perenne fanciullezza spesa a scandagliare il tempo altrettanto sospeso e «perduto» della scrittura.
Negli interstizi del possibile
«La vita non è qui», constatava non senza soddisfazione nella poesia del 1967 La gioia di scrivere, raffigurandosi impegnata a inseguire con lo sguardo «una cerva scritta in un bosco scritto», ad assaporare ancora una volta l’inebriante certezza che l’universo della creazione poggi, «nero su bianco», su leggi diverse da quelle del reale. Una consapevolezza, come in Proust, mai disgiunta dallo stupore: «C’è dunque un mondo / di cui reggo le sorti indipendenti? / Un tempo che lego con catene di segni? / Un esistere a mio comando incessante?». Replicando con un vertiginoso crescendo, la poetessa ammetteva senza false modestie la propria condizione di privilegiata: «La gioia di scrivere. / Il potere di perpetuare. / La vendetta d’una mano mortale». Forse, proprio da qui – dal dono che offre la scrittura di addentrarsi tra gli interstizi del possibile e di esperire ad libitum il «paradiso perduto della probabilità » – derivava quel «moderato ottimismo» che, secondo Pietro Marchesani, suo traduttore italiano da sempre, anch’egli scomparso due mesi fa, distingueva profondamente la Szymborska dagli altri poeti polacchi.
Nata nel 1923, testimone del secondo conflitto mondiale e della Polonia socialista del dopoguerra, scriverà di sé: «Sono, ma non devo / esserlo, una figlia del secolo». E, in effetti, a partire dagli anni Sessanta l’invincibile tentazione di recuperare le eventualità scartate dal caso, farà deviare impercettibilmente la sua penna dalla Storia a un’interrogazione delle tante varianti dell’essere non realizzate.
La lama del paradosso
«Progetto un mondo, nuova edizione, / nuova edizione, riveduta» – annunciava in Appello allo Yeti, la raccolta del 1957 che segnava il distacco definitivo dalla fede giovanile nell’utopia socialista e l’approdo a quel tono lieve e insieme caustico che avrebbe reso inconfondibile la sua voce. Retrocedere fino a quell’ipotetico attimo che ancora comprende tutte le possibilità era per lei un riflesso involontario dell’immaginazione, sia che si trattasse dei quattro minuti precedenti l’esplosione di una bomba (Il terrorista, lui guarda) o di quel condensato del senno di poi che è la prima foto di Hitler bambino. Un istinto questo che la avvicinava ancor di più all’amico Krzysztof Kieslowski, incline in film come Il caso (1981) a indagare le conseguenze imponderabili di un treno preso al volo, oppure perso per un soffio.
Disseminata di correlativi oggettivi di notevole icasticità (come quella busta vuota appoggiata a un bicchiere con cui si chiude La stanza di un suicida), la poesia della Szymborska riesce ad aprire nel quotidiano autentiche falle metafisiche, affondando la lama del paradosso in ciò che saremmo propensi a ritenere «normale».
Precetti elusivi
Così è, ad esempio, in 16 maggio 1973, che celebra il risibile dramma di giorni ridotti a semplici date, spariti dai nostri ricordi senza lasciare tracce: «Scuoto la mia memoria / forse tra i rami qualcosa / addormentato da anni / si leverà con un frullo. / No. / Evidentemente chiedo troppo, / addirittura un intero secondo». Annullare la presunta ovvietà del mondo che ci circonda, anzi dimostrare che una simile normalità non esiste affatto; prendere a prestito parole «patetiche» dalla lingua e poi «faticare per farle sembrare leggere» – sono questi gli scarni, elusivi precetti di una poetessa che sosteneva di non sapere bene in che cosa consistesse la poesia e di essersi aggrappata a questa scienza negativa «come alla salvezza di un corrimano».
Antropologicamente refrattaria alla posa del vate – anzi, autrice di una Lode alla cattiva considerazione di sé – la Szymborska ritenne di dover impiegare il mantra del «non so» come indispensabile antidoto al proprio fideismo giovanile. «Ho fatto parte di una generazione che ha creduto. Io credevo. È stata la peggiore esperienza della mia vita», così sintetizzò il senso della propria decennale militanza nel Partito operaio unificato polacco, da cui uscì volontariamente nel 1966 in solidarietà con lo storico ebreo Leszek Kolakowski che ne era stato espulso. Da allora estenderà l’esercizio del dubbio metodico anche a quell’argomento su cui d’altronde si pronunciava assai di rado, ossia la poesia.
Fu costretta a farlo – ovviamente – nel 1996, allorché le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Persino in quella occasione riuscì a sfoderare la sua consueta ironia, lamentando gli svantaggi di un lavoro «per nulla fotogenico», da cui difficilmente un regista si sarebbe mai azzardato a trarre un film: «Una persona seduta al tavolino o sdraiata sul divano fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, e passa un’altra ora in cui non accade nulla…Quale spettatore reggerebbe un simile spettacolo?».
Un irriverente stupore
Ma forse è la garbata polemica contro il concetto di perfezione intrapresa nella raccolta Grande numero (1976) a restituire meglio l’ampiezza di quella scepsi divertita che la Szymborska seppe coltivare impavidamente. In Avvertimento la poetessa diffida non meglio precisati enti spaziali dal portare nel cosmo i «burloni», incapaci di apprezzare la bellezza assoluta degli astri: «Limitati. / Preferiscono il giovedì all’infinito». E nella celebre Cipolla finge di tessere le lodi dello sferico bulbo, coerente e riuscito nella sua compiuta «cipollità », per contrapporgli poi, in una delle sue fulminanti pointe, l’essere umano, cui «resta negata / l’idiozia della perfezione».
Ai suoi interrogativi pervasi da irriverente stupore non sfuggono neppure la vita e la morte. «Non omnis moriar – un cruccio precoce. / Ma vivo intera?» – si chiede in Grande numero, incrociando le lame a distanza con Orazio. Una disputa tuttavia che sfuma nella superiore consapevolezza di come tutto – corpo e anima – a questo mondo sia perituro: «La vita dura qualche segno d’artiglio sulla sabbia».
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