Nelle colonie del Googleplex
Ogni estate, da quando hanno conosciuto l’ebbrezza di libertà nel campus universitario, Sergej Brin e Larry Page si prendono una breve vacanza. Per alcuni giorni, talvolta una settimana i due giovani e miliardari nerd piantano le loro tende a Black Rock, nel deserto del Nevada. È il luogo scelto, nei lontani anni Novanta del Novecento, come sede del Burning Man, il festival più schizzato degli Stati Uniti, dopo lo sfratto da una delle spiagge di San Francisco. Artisti, compositori, videomaker e virtuosi della programmazione informatica si danno appuntamento per un happening dove non ci sono regole precise, eccetto una: è tutto permesso affinché le proprie eccentriche idee possano essere socializzate. Burning Man è noto per quel clima «culturale» a mezza strada tra un festival New Age e una mostra-mercato, dove l’alcol, l’acido lisergico, i funghi allucinogeni, le anfetamine e disinvolti costumi sessuali hanno piena cittadinanza. Per la controcultura statunitense è stato per anni uno degli appuntamenti da non perdere, anche se da tempo c’è chi accusa gli organizzatori di averlo trasformato in un festival troppo politically correct. Non è dato sapere se i due fondatori di Google, una volta che la loro impresa è diventata, per molti versi , l’alfa e l’omega di Internet, continuano a rinnovare questa parentesi in una vita scandita dal lavoro. La loro presenza al Burning Man è usata dallo studioso Siva Vaidhyanathan per introdurre la cultura d’impresa di Google, cioè quel mix tra attitudine controculturale, culto dell’innovazione e fede cieca nelle virtù salvifiche della tecnologia digitale che l’hanno resa uno dei master of internet universe (La grande G, Rizzoli, pp. 320, euro 21).
Il mistero di Page Rank
Non è però un libro agiografico. Semmai è uno dei saggi che analizzano e denunciano il potere di Google dentro e fuori lo schermo, invitando a farei conti con una realtà , quella del web e di un particolare modello produttivo, che trova pochi precedenti nel pensiero economico critico statunitense. Siva Vaidhyanathan sostiene, a ragione, che Google è uno degli esempi più riusciti di commons based peer production, cioè di una impresa che mette a profitto l’informazione e la conoscenza attraverso un espediente tanto semplice quanto banale quanto lo sono le inserzioni pubblicitarie. Inoltre, il potere di condizionamento di Google mette in evidenza la tendenziale contraddizione se non incompatibilità tra quel modello produttivo e la democrazia, visto che la società di Sergej Brin e Larry Page ha sviluppato una capacità di manipolare l’operato di governi nazionali e organismi internazionali.
Per argomentare la sua tesi, Siva Vaidhyanathan riassume ovviamente la storia di Google da quando fu presentata la prima versione del motore di ricerca, che aveva un indirizzo dove spiccava il nome dell’università , Stanford, dove i due giovani stavano conseguendo un dottorato. Sostiene che l’algoritmo alla base del motore di ricerca è stato lì sviluppato, ma non si dilunga certo sulle polemiche di chi sia stato l’inventore, se i due giovani nerd o qualcun altro. Ricorda che nei primi anni di esistenza Google non ha avuto vita facile: pochi gli investitori, quasi inesistente l’attenzione della pubblicistica specializzata. Fino a quando, un articolo illustrò la comparazione tra i diversi motori di ricerca che dominavano la scena tra la metà e la fine degli anni Novanta. Google era il più veloce e, cosa inusuale allora, presentava come primi risultati quasi sempre siti ritenuti «seri», «affidabili», anche quando la ricerca si concentrava su temi controversi – l’antisemitismo, materie scientifiche, problemi politici o uno dei tanti argomenti che occupavano lascerà delle «guerre culturali» statunitensi (immigrazione, matrimoni tra gay, ruolo dello stato in economia). Google era cioè ritenuta imparziale. Inoltre nella politicy – l’insieme delle regole che l’impresa dichiarava di voler seguire – c’è quel motto amato dai tecnofoli liberal presenti nella rete: don’t be a devil, non essere malvagio, che segnalava come Google mai e poi mai avrebbe condotto una politica monopolista, indifferente alla privacy e tutta incentrata sulla appropriazione privata del sapere e della conoscenza, cioè l’esatto opposto di quanto faceva allora, e ancora oggi, la Microsoft di Bill Gates e Steve Ballmer. Google dichiarava inoltre la sua mission usando toni religiosi: favorire l’accesso universale alle informazioni del passato e del futuro.
Messianesimo tecnologico
Siva Vaidhyanathan parla di una sorta di escatologia che ha i suoi teologi e sacerdoti negli ingegneri che costituiscono lo zoccolo duro di Google. Il problema, per gli ingegneri, non sono i contenuti, ma gli strumenti per giungere ad essi attraverso una infrastruttura semplice, potente, affidabile e amichevole. Da qui il culto per l’innovazione. Google voleva,e in parte c’è riuscita, rendere la Rete un universo non ostile e fornire precise mappe e coordinate per inoltrarsi in esso senza timore di perdersi. Da qui la costante mappatura della Rete per fornire informazioni necessarie per stare connessi senza paura. Da qui le politiche antispam (i messaggi e i siti dal contenuto dubbio o potenzialmente «pericoloso», come i siti porno); da qui la scelta di usare e di proporre programmi informatici open source, cioè non sottoposti alle leggi del copyright per fornire servizi gratuiti.
La rappresentazione di Google come impresa liberal ha molti lati oscuri, ma è stata costruita pazientemente facendo leva su quella divertente espressione che è il pregiudizio della fiducia. Se un sito o un singolo sono «googlizzati» vuol dire che sono realtà o persone la cui attendibilità è data non da opinabili criteri di valutazione del motore di ricerca, ma dalla quantità dei link che rinviano alla loro pagina Internet. Google ha acquisito prestigio, fama e profitti proprio per il suo algoritmo – Page Rank, di cui nulla si sa rispetto al suo funzionamento -. Garanti di tale capacità di stabilire l’affidabilità di un sito basandosi sul numero delle pagine internet che rinviano ad esso sono gli ingegneri, che aborrono, sostiene il senso comune, la dimensione eterea, dialogica del concetto di qualità a favore della dimensione quantitativa, e quantificabile, che orienta il motore di ricerca made in Google.
Anche questa parte della storia potrebbe essere messa in discussione. Anzi sono anni che gruppi indipendenti di ricercatori, mediattivisti e altre imprese hanno contestato l’imparzialità di Page Rank, sostenendo che molte ricerche sono condizionate da chi acquista, attraverso il meccanismo dell’asta, spazi pubblicitari (da questo punto di vista va segnalato il pionieristico studio Luci e ombre di Google, del gruppo di mediattivisti Ippolita, www.ippolita.net). Accuse smentite e comunque difficili da confermare perché, appunto, dell’algoritmo nulla si sa, eccetto che è tutelato da un brevetto, in barba alle mille e una prese di posizione critiche verso le norme sulla proprietà intellettuale di Brin e Page, perché ritenute un ostacolo all’innovazione tecnologica.
Malvagi ben intenzionati
Il volume di Siva Vaidhyanathan si discosta però da molte altre storie di BigG quando affronta la «googlizzazione» del mondo, mettendone in evidenza aporie e contraddizioni. In primo luogo la continua adesione di Google alla retorica a favore del libero mercato e di critica alle inefficienze del settore pubblico, rimuovendo quel continuo flusso di finanziamenti che da Washington si è riversato nelle università , compresa Stanford dove Page Rank è stato sviluppato. Ma, elemento ben più significativo, è la scelta compiuta da Google di collaborare con il governo cinese nella censura del web. Una collaborazione che non si è interrotta neppure quando Pechino ha deciso di ostacolare in tutti i modi Google nel mercato cinese per favorire Baidu, il motore di ricerca made in China. La risposta di Google – lo spostamento dei server a Hong Kong – è stata motivata dalla volontà di rispettare i diritti umani e la libertà di espressione. Peccato che i server di Hong Kong hanno continuato a diffondere i materiali sottoposti alla censura di Pechino.
Ma è proprio questo episodio che evidenzia come «l’imperialismo delle infrastrutture» di Google abbia subito uno smacco, facendo emergere una geopolitica della Rete dove gli stati nazionali, secondo Siva Vaidhyanathan, stanno recuperando il potere perduto nella regolamentazione di Internet. Ma più che un ritorno degli stati nazione sarebbe opportuno parlare di una multilevel governance, dove la Cina vuol svolgere un ruolo egemonico al pari di altri governi nazionali e imprese transnazionali. Inoltre, l’espressione «imperialismo delle infrastrutture» non coglie neppure il supposto monopolio di Google nella Rete. Fa bene Siva Vaidhyanathan a sottolineare il fatto che Google si muove come un free rider rispetto ad altre imprese. Il fatto che tutti i servizi della società di Mountain View – dal motore di ricerca alla posta elettronica, dal navigatore al sistema operativo da poco sviluppato, dai programmi applicativi alle mappe e a Google Books – sono gratuiti. Il caso più noto è quello di Google News e la polemica di Rupert Murdoch, che ha accusato Brin e Page di essere dei parassiti e di fare affari con il lavoro svolto da altri. Una polemica tra imprese capitalistiche, va da sé, ma evidenzia proprio il punto forte, ma anche la potenziale fragilità di Google.
Cacciatori di profili
Google mette a profitto la cooperazione sociale, attuando quello che in termine tecnico viene chiamata la «profilazione dei consumatori». In altri termini ogni click fatto sul motore di ricerca o ogni video visto su YouTube, ogni libro letto o scaricato con Google Books diventano elementi per costruire un profilo che può essere impacchettato per offrire alle imprese un bacino di consumatori da raggiungere attraverso mirate campagne pubblicitarie. Finora tutto questo ha funzionato, ma sta provocando un rigetto perché è un’operazione che può entra in rotta di collisione con la privacy. Il nomignolo di BigG fa riferimento al grande fratello orwelliano, anche se in questo caso abbiamo una forma di controllo diffusa e pervasiva attivata proprio dallo «stare in Rete». In altri termini il modello produttivo di Google – gratuità e messa a profitto dei beni comuni come l’informazione e la conoscenza – entrano in rotta di collisione con la democrazia. Siva Vaidhyanathan invoca la necessità di una sfera pubblica globale dove il potere di Google possa essere contenuto e dove si possa esercitare un controllo sulla società di Page e Brin. Ma quello che allo studioso nato a Buffalo sfugge è che la produzione stessa dell’opinione pubblica sta diventando un business. La tematica della cloud computing non si esaurisce nella possibilità dei singoli di essere vincolati a una impresa che offre di tutto e di più per stare in rete – dai programmi informatici ai contenuti -, ma che anche lo scambio di opinioni nelle chat e nei social network contribuiscono appunto alla «proliferazione dei consumatori». E su questo terreno Google deve vedersela con altre imprese – Facebook, ovviamente, ma anche Twitter – che sono nate proprio nella produzione di sfere pubbliche.
La «googlizzazione di ogni cosa» – così recitava il titolo originale del volume – può incontrare proprio il suo limite proprio nelle dinamiche messe in moto da Google. Se tutto il web può essere a portata di click, il regime di accumulazione fondato sull’espropriazione – di conoscenza, informazione .- deve basarsi proprio su chi quei contenuti produce dentro la sfera pubblica. E non è detto che accetti di rimanere un soggetto passivo, così come vogliono Larry page e Sergej Brin.
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