Nel limbo della «piazzetta» con le istruzioni sui fogliettini

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Tutto, all’Umberto Primo, può succedere o non succedere; shula bula, dicevano nel carcere turco di Fuga di mezzanotte, tutto è così e cosà : ma dalla malattia umiliata e mal assistita persino la fuga è esclusa. Poteva succedere che nessuno s’accorgesse di Miriam, la cinquantenne con l’Alzheimer legata al lettino forse per quattro giorni, forse a fin di bene, chissà . Se ne sono accorti due senatori, Ignazio Marino e Mimmo Gramazio, in una visita a sorpresa, ed è nato il putiferio di queste ore. L’ennesimo. 
Perché sta nel dna del Policlinico romano il paradosso di coniugare professionalità  d’eccellenza e carenze mediorientali. «Qua nei giorni della neve hanno menato sei infermieri, ed è colpa vostra, sì, di voi giornalisti!», ringhia un sindacalista con la faccia da corsaro nero: «A furia de legge che li legamo, se ribellano e ce menano. Questo per noi che ci lavoriamo è un reparto punitivo, bello mio, benvenuto! Ma ‘sta storia della donna legata e in coma è ‘na caz... se stavo qua quando è venuto Gramazio je lo dicevo, è amico mio, lo voto». La cinica bonomia dei camici bianchi, sempre insufficienti nel numero a un compito sempre più gigantesco, ha battezzato «piazzetta» — come a Capri, come a Portofino… — questo luogo di transito del pronto soccorso che può diventare anticamera del dolore o della salvazione e che troppo spesso prevede soggiorni a tempo indefinito. Da qui si va ai reparti, quando e come si può, shula bula
Alle sei del pomeriggio il cartello della ragazza dell’Est è stracciato in un angolo. Un vecchio con gli occhi cerchiati agonizza nella barella accanto, il respiro un sibilo. Un ragazzo nordafricano prega, berretto in testa, coperta macchiata sulle spalle. Diciotto malati in attesa di giudizio stanno nel centro della «piazzetta», carni esposte al passaggio di chiunque, pannoloni, smorfie dentro maschere d’ossigeno, dignità  piagate. Miriam era nel secondo letto della fila di sinistra, ora c’è una vecchietta con la faccia mezzo insanguinata, sangue rappreso d’indifferenza. Mentre arrivano gli ispettori del ministro, un giovane finanziere caduto in motorino in via XX Settembre sta già  in barella spinale da tre ore col suo possibile trauma cranico, ne aspetterà  altre due prima che qualcuno si occupi di lui: «Nel frattempo un barbone è venuto a dormirmi nella barella accanto». Quando il direttore generale era ancora Ubaldo Montaguti (ora sostituito da Antonio Capparelli, devoto al potente e discusso rettore Luigi Frati) un clochard venne a morirci, qui: infarto dopo dieci ore di attesa nel nulla, i giudici diranno se è stato omicidio colposo. Nel ’92 un giovane tossico riuscì a bucarsi in barella e stramazzò nei vialetti appena qua fuori. Storie vecchie o vecchissime. Che naturalmente tracimano, non riguardano solo l’ambulatorio ma diventano narrazione e identità  dell’ospedale intero, come i tunnel dei rifiuti e della vergogna, i sospetti di traffico d’organi, le cattedre fantasma, le mazzette sulle pompe funebri, la legionella, l’operazione di cataratta sfociata in cecità  per quattro anziani nel ’98, l’enterite necrotizzante per quindici neonati nel ’99, la mitica senzatetto che s’era fatta casa nei sotterranei, insomma cronache e leggende un po’ noir di una grande istituzione capitolina nata nel 1888, scandali stratificati come ere geologiche.
Alle sei del pomeriggio sono quarantaquattro in tutto le anime del purgatorio della «piazzetta»: un po’ anche nei corridoi, che della piazzetta sono i vicoli, un po’ ammonticchiate sulle sedie, chi ce la fa a reggersi. «Tre medici e tre infermieri per quaranta pazienti e passa, qua facciamo i doppi turni, ai giornalisti bisognerebbe tagliare la testa», strilla Marina, cardiologa stimatissima, vent’anni di servizio vissuti come una fede, l’indignazione di chi ce la mette tutta sempre. Oggi, come sempre, si aspettano letti nei reparti, ma mai che bastassero, specie adesso che ne hanno tagliati seimila in giro per il Lazio. «Me ne servono in media trenta liberi al giorno, stiamo attufati per colpa della domenica, è sempre così, la domenica si dimette poco e il lunedì è un casino. Ma stiamo riemergendo», sintetizza il gran capo di questo limbo, Giuliano Bertazzoni, responsabile di Medicina d’urgenza. Se il Policlinico è una metafora nazionale, con la sua federazione di ospedalini e baronie fuori controllo e le sue quaranta sale operatorie sparse in una superficie grande quanto mezzo centro di Milano, Bertazzoni ne incarna il genius loci.
«Fratiano» di ferro (dicono che il Magnifico abbia seminato parenti e fedeli come mattonelle del linoleum qua attorno), piccoletto e mercuriale, simpatico e disponibilissimo, soffre un po’ e mostra un dito gonfio: «Vede?, il mio labrador me l’ha strappato col guinzaglio, stamattina». Ben altri dolori incombono… «Dolori? Certo bisogna fare qualcosa per l’emergenza. Ma che ci andiamo di mezzo io o i miei medici è una vergogna». Allora di chi è la colpa? Franco Rapa, caposala, «l’unico grasso e tondo, mi riconoscono subito», allarga le braccia: «Ma quali colpe? Quali pazienti legati? Se dobbiamo fare qualcosa di illegale, secondo lei, lo facciamo qua, in mezzo a cinquanta persone?». Nella «piazzetta» però ci si muove a stento… «E se la prenda con l’architetto che l’ha disegnata! Qua non siamo ad Auschwitz, qua facciamo il massimo per gli altri», sbuffa Bertazzoni. Un’idea per tutelare dignità  e privacy era saltata fuori: mettere i medici al centro e le barelle nelle stanzette laterali; ma serviva personale, perché è più facile controllare i malati tutti ammucchiati che seguirli nelle stanze, dunque niente di fatto almeno per ora. «Volevo fare pure l’Obi, per l’osservazione breve intensiva, ma gli infermieri servono! E non me li danno! E chiudono il San Giacomo, chiudono il Sant’Eugenio, e tutti vengono qua da noi!». Il dito lussato dal labrador sembra infine ricondotto a problema minore per chi deve gestire un posto in cui la distribuzione del potere pare pensata proprio per generare paralisi: pure per spostare una sedia ci mette bocca la facoltà  di Medicina della Sapienza, ma i soldi sono della Regione e tocca tener conto perfino del demanio e di una fetta di tutela archeologica. I telefoni di Bertazzoni trillano senza sosta né pietà , annunciando una serata lunga e piena di dispiaceri. Lui guarda con nostalgia la pagina d’un quotidiano romano incorniciata con una sua intervista, titolo sobrio: «Lottiamo ogni minuto per la vita, ma certi pazienti non lo capiscono». Sospira: «’Ste belle cose non me le scriverete più, eh?». Pare difficile. «Ma almeno non massacratemi. Oh, dico: mio figlio lavora con Santoro…». È l’ultimo jolly da tentare, poi la notte del Policlinico inghiotte anche Bertazzoni.


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