Monti da Obama, due debolezze

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Nell’edizione statunitense invece la copertina è ben altra: tutta in rosa, titola «Amicizie animali», con un cagnolone (gli Usa?) e un cagnolino (l’Italia?) accovacciati uno a proteggere l’altro.
È difficile che Time intendesse insinuare che Monti è per Barack Obama un cagnolino affettuoso. Ma il sospetto resta. Anche perché questo italico pellegrinaggio oltre Atlantico è da decenni una vera e propria forma d’investitura. Tutti sanno che le prime due visite «estere» che un nostro primo ministro compie appena entra in carica sono quelle in Vaticano e alla Casa bianca: le due potenze cui deve rispondere, ancor prima che al popolo italiano.
Ma c’è in questa visita di Monti una parte che sfugge alla ritualità  e va oltre le pur immancabili rassicurazioni di «indefettibile fedeltà » italiana agli Usa, di «sincero apprezzamento» statunitense per l’impegno italiano in Afghanistan e in altri (possibili o prossimi) teatri di guerra (Iran? Siria?). Ed è il disagio – condiviso sia da Monti che da Obama – per l’attuale gestione della crisi dell’euro, soprattutto da parte tedesca. Il disagio è dovuto alla comune situazione di debolezza (fragilità  certo proporzionale alla rispettiva forza): che l’appartenenza dell’Italia all’area euro sia tuttora appesa un filo è fatto noto a tutti gli esperti.
Ma anche gli Stati uniti traballano: da quanto è trapelato sulla stampa internazionale, nell’ultimo mese si sono intensificate riunioni riservate tenute dai ministri delle finanze e dai governatori delle banche centrali di Russia, Cina, Giappone, Brasile e paesi del Golfo, per sostituire il dollaro come moneta di riferimento con un paniere di valute che dovrebbe includere lo yuan cinese, lo yen giapponese, l’euro, l’oro e una nuova valuta unificata dei paesi del Golfo, comprendente Arabia saudita, Kuwait, Qatar e Abu Dhabi: per cui – quando la transizione sarà  ultimata, nel 2018 secondo i piani – il petrolio non sarà  più quotato in dollari.
Quindi è in bilico non solo lo status internazionale dell’Italia, ma anche quello degli Usa (seppur nelle dovute proporzioni). E, al di là  dei sorrisi di facciata, sia Obama che Monti sono assai irritati con l’establishment tedesco: Monti perché, nonostante i salassi che ci prescrive e la drastica cura di austerità  cui ha sottoposto l’Italia, Berlino continua a nicchiare sul fondo salvastati, a rinviare, a condizionarne il finanziamento e la capacità  di prestare. Come se lo scopo ultimo di Berlino fosse di commissariare l’intera Europa, non solo – come già  ha proposto – nelle appendici dell’Unione europea quali Portogallo, Grecia e Irlanda, ma anche nel suo zoccolo duro. Di fare cioè dei nostri paesi dei protettorati economici: altro che l’«Europa a tre» chiesta da Monti!
E gli Usa, dal canto loro vedono la riluttanza tedesca a intervenire con decisione per rimettere l’euro in carreggiata una volta per tutte, come una minaccia letale per l’incipiente ripresa. Minaccia tanto più grave per un presidente, come Obama, in piena campagna elettorale, la cui rielezione dipende dall’andamento del mercato del lavoro e cioè dai nuovi posti di lavoro che verrebbero spazzati via da un’implosione dell’euro. Non solo Obama, ma anche il governatore della Federal Reserve Ben Bernanke e il ministro del Tesoro Usa Tim Geithner sono irritati dal modo in cui la Germania sfrutta la relativa nuova debolezza economica degli Usa (sono stati notati i toni della concretissima, recente visita di Angela Merkel a Pechino) ed è questa una delle ragioni per cui il Fondo monetario (di cui gli Usa sono azionisti di riferimento) nicchia anch’esso e tarda a venire in soccorso ai paesi europei afflitti dal debito sovrano.
È difficile anche solo immaginare che Obama e Monti abbiano concordato una posizione comune nei confronti delle ambiguità  tedesche. Ma è invece probabile che si siano lanciati segnali di convergenza su cui far lavorare in futuro le rispettive cancellerie.
E così verrebbe almeno in parte confermato il sospetto tedesco nei confronti degli italiani «doppiogiochisti», una diffidenza che era alla base dell’ostilità  di Berlino a far entrare l’Italia nell’euro quando la moneta unica doveva ancora essere varata. La domanda che – si tramanda- si ponevano allora i responsabili economici di Francoforte era: «Ci hanno già  traditi due volte, nel 1915 e nel 1943: chi ci assicura che al momento opportuno gli italiani non voltino ancora gabbana?»


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