Memoria Senza Diritti

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La sentenza con la quale il Tribunale Internazionale de l’Aia ha respinto di fatto la richiesta di risarcimento di un italiano deportato nel 1944 per il lavoro forzato in una delle peggiori sedi di sfruttamento a favore delle fabbricazioni belliche del Terzo Reich sollecita più di una considerazione, dal punto di vista giuridico come dal punto di vista storico. Per la precisione, a l’Aia è stato discusso il ricorso dello stato tedesco contro lo stato italiano reo di non avere impedito ai propri organismi giudiziari che un semplice cittadino italiano chiamasse in giudizio lo stato tedesco e ancor peggio che il supremo tribunale italiano emettesse sentenza di condanna al risarcimento da parte della Germania. Non è certo questo né il solo né il primo caso di denegata giustizia per le sopraffazioni e i crimini commessi dalle forze d’occupazione tedesche durante la seconda guerra mondiale. La casistica è anche troppo ricca di esempi che attestano come a uscire sconfitte dalle contese giudiziarie siano state sempre le vittime, nelle fattispecie più diverse. Di recente, un insigne studioso tedesco, Christoph Schminck-Gustavus, che dovrebbe essere noto in Italia per le sue appassionate rievocazioni delle vicende dei soldati italiani catturati dalla Wehrmacht dopo l’8 settembre del 1943 e del massacro di Cefalonia, ha pazientemente ricostruito l’iter giudiziario a carico dei responsabili della deportazione degli ebrei dalla Grecia per giungere alla conclusione che nei primi decenni della Repubblica federale tedesca la magistratura ha sistematicamente disatteso ogni aspettativa di giustizia, mandando assolti o condannati a lievissime pene i protagonisti di quelle deportazioni non riconoscendo in nessuno di essi i responsabili principali, derubricandone gli atti compiuti a responsabilità  secondarie. È un esempio tra i tanti, l’ultimo che abbiamo potuto constatare documentato in ogni sua fase.
Che dire del caso in questione? Il governo tedesco si è trincerato dietro la sovranità  dello stato: non spetta ai privati cittadini adire la giustizia di un altro stato. Le questioni relative ai risarcimenti sono sottratte ai tribunali civili, vanno regolate tra stati, affidate al braccio di ferro tra parti che difendono a denti stretti il proprio spazio di sovranità . Nulla di promettente per il cittadino o i cittadini che presumessero di avere la tutela dello stato di cui avessero la cittadinanza. Perché a questo punto entrerebbero in gioco fattori di natura politica che passano sulla testa degli interessati. La Germania anche sotto questo profilo si trincera dietro accordi e intese che concessero indennizzi forfettari per i danni arrecati con l’occupazione, senza contare che tali indennizzi furono accordati in anni in cui spesso non era ancora del tutto nota la reale portata dell’offesa recata a intere comunità  travolte dalla guerra. Il caso dei deportati per lavoro forzato dall’Italia è sicuramente tra questi, tanto che soltanto negli ultimi anni sono state intraprese ricerche serie per accertarne l’entità . Visitando lo scorso anno la grande mostra sul lavoro forzato sotto il Terzo Reich allestita allo Judisches Museum di Berlino mi saltò agli occhi non già  che la deportazione dall’Italia fosse del tutto minoritaria rispetto a quella soprattutto dei paesi dell’Europa centro-orientale, Polonia e territori sovietici in primo luogo, ma che tra le biografie-tipo dei lavoratori coatti vi fosse un solo caso dedicato all’Italia. Ebbene, questo caso isolato non denotava negligenza dei ricercatori tedeschi ma era la spia dello scarso interesse dello stato italiano e degli enti pubblici italiani per il recupero della memoria di eventi che hanno così profondamente inciso sulla vita delle comunità  locali e della società  nazionale.
Da indiscrezioni di stampa sembra che il presidente del tribunale de l’Aia che ha emesso la sentenza così discussa abbia espresso l’auspicio che per via diplomatica, ossia fra stati, sia possibile risolvere i casi che fuoriescono da una regolamentazione giuridica certa. Ma una trattativa tra stati per sanare situazioni nelle quali la Germania finora non ha riconosciuto il diritto al risarcimento – come a proposito degli ex internati militari italiani, di fatto prigionieri di guerra ad onta della dizione con la quale i nazisti vollero eludere l’osservanza delle convenzioni di Ginevra – presuppone da parte del governo italiano una volontà  politica forte di sostenere l’interesse delle vittime, circostanza di cui finora la parte italiana non ha dato certo prova, come è stato abbondantemente ricordato in diverse occasioni e non da ultimo su il manifesto del 3 febbraio. Non è escluso che lo stato tedesco sul terreno diplomatico scenda a più miti consigli, una volta esclusa l’ipotesi di una sentenza che avrebbe potuto avere incalcolabili effetti a cascata. Il problema per la Germania non è di esborsi di denaro; la questione di principio le serviva per scoraggiare altre rivendicazioni, per blindare la sua immunità  giudiziaria. Rispetto all’ipotesi che si potesse fare strada il riconoscimento di un risarcimento in qualche modo riconducibile a una attuale nozione di diritti umani nel caso specifico contro la riduzione in schiavitù, si tratta come riconosciuto da autorevoli voci della stessa stampa tedesca di un «passo indietro», che non frustra solo il tentativo di ottenere un risarcimento come attestazione, fosse pure soltanto simbolica, di un torto subito da un individuo o da una comunità , ma più in generale nega la possibilità  che la lesione dei diritti umani ad opera di stati sovrani, che è una evenienza ancora oggi tutt’altro che rara, possa trovare una adeguata sanzione indipendentemente dalla magnanimità  del detentore di un potere statuale. In prospettiva si presentano problemi giuridici complicati di fronte alla tenace volontà  degli stati di non cedere porzioni di sovranità  e alla stessa debolezza degli organismi internazionali (fossero le Nazioni unite o più limitate associazione di stati come l’Unione europea) nel fare accettare regole condivise che rimettessero in gioco l’esercizio sovrano della giurisdizione. Rimandare la soluzione ai rapporti politici tra gli stati non risolve nulla perché rischia di mettere alla prova il rapporto di forze tra le parti del quale farebbero le spese i diritti umani. Il conflitto tra diritto e politica rischia perciò di perpetuare l’ingiustizia e di sommare alla memoria del crimine la convinzione della giustizia negata. 
* Storico della Resistenza in Europa 
e della Germania


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