Melfi, la verità  degli operai

by Sergio Segio | 20 Febbraio 2012 18:20

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Comincia tutto con un flash. Davanti alla macchina fotografica ci sono gli operai con le magliette rosse Sata, il direttore sta nel mezzo e tiene le braccia conserte sul doppiopetto. Sulla sinistra si vede una vecchia Punto, col numero uno sul parabrezza, al lato opposto c’è la nuova Punto. Era il maggio del 2010, e allo stabilimento Fiat Sata di Melfi si raggiungeva il traguardo dei cinque milioni di auto prodotte, che faceva della fabbrica uno dei siti automobilistici più produttivi al mondo.

Le foto sono fatte così: un giorno le guardi e ti rendi conto che tutto è cambiato. E anche se è passato solo un anno e mezzo da quel giorno di festa, a Melfi gli operai non sorridono più. Gli italiani hanno visto nel servizio di Claudio Pappaianni, andato in onda su Servizio Pubblico di Michele Santoro, il preposto aziendale Francesco Tartaglia minacciare un operaio[1]: «Io ti stacco la testa e la appendo in piazza». Tartaglia è lo stesso che la sera del 14 luglio 2010 fece partire la contestazione che portò al licenziamento di Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, della Fiom, colpevoli di aver «interrotto la produzione» con uno sciopero.

Melfi è un antico paese lucano, su cui domina il castello, che la notte rimane illuminato. Da lì i normanni potevano vedere cosa accadeva nel paese, e se vi affacciate oggi e guardate a valle potrete vedere cosa succede nello stabilimento Fiat Sata. A un chilometro dalla fabbrica c’è un capannone isolato, la ex Itca, dove vengono trasferiti gli iscritti Fiom o gli attivisti, dice il segretario lucano Fiom Emanuele De Nicola: «Abbiamo denunciato come sindacato quei trasferimenti, con cui si vuole confinare chi è tesserato al nostro sindacato». Secondo De Nicola: «Sono una decina i licenziati della Fiom dal 2010, mentre con la “mobilità  interna” chiunque può essere spostato di reparto senza preavviso».

Come Marco Forgione, anche lui della Fiom, che a 30 anni ha avuto un tumore ai polmoni: «La mia cartella clinica dice che non posso stare vicino alle polveri e ai solventi», dice, «ma mi hanno messo in lastratura, alla Itca, dove non posso respirare bene». Marco chiede spiegazioni del trasferimento al caporeparto, che ammette: «Vi hanno messo qui perché appartenete a quella sigla sindacale».

Alle polveri della saldatura della ex Itca, hanno trasferito anche Michele Corbusiero, che nel 2010 ha avuto un infarto: «Io sto male al lavoro, e nonostante il certificato medico mi lasciano lì. Un preposto aziendale dovrebbe occuparsi della produzione», continua, «ma qui a Melfi ha potere di vita e di morte su tutti noi». Gli operai Fiat, gli stessi che posavano in quella vecchia foto, ora denunciano una situazione drammatica: «Siamo trattati come schiavi, siamo carne da macello. A Melfi se vuoi continuare a lavorare», dice ad esempio Lucio Schirò, operaio: «Non devi vedere, sentire e parlare». Ma ora, molti operai, a stare zitti non ce la fanno più.

L’udienza e la ritorsione
Marco Forgione, si diceva, è stato operato per un cancro ai polmoni e adesso è invalido al 75 per cento. Ha 30 anni, un grosso cane e – dice – ha «Sempre lavorato sodo». Però non deve stare esposto a fumi, polveri sottili, solventi. Infatti era stato assunto come categoria protetta e lavorava in catena di montaggio da sette anni. «Senza mai saltare un giorno», racconta: «Andavo a lavorare anche con la febbre, non mi vergogno a dirlo». Poi accade qualcosa. Nel luglio 2010 tre operai vengono licenziati per avere bloccato la produzione con uno sciopero. Inizia il processo e alcuni colleghi vanno a testimoniare a favore dei tre. Tra loro, Marco. Che ne paga le conseguenze: «Mi hanno trasferito in lastratura alla ex Itca, per allontanarmi dalla catena di montaggio», dice, «come hanno fatto con altri della Fiom, e lì sto a contatto con le polveri che non posso respirare».

Il gestore operativo, invece di rimetterlo al montaggio, lo dichiara ‘incollocabile’. Marco si lamenta col suo caporeparto Gaetano Perrini, in questa discussione registrata: «Aggravare la mia condizione di salute significa non potere più tornare indietro». Il caporeparto, che nella conversazione dice di non avere deciso lui il trasferimento, risponde: «Voi avete pagato delle colpe perché appartenete a una sigla sindacale […] Non è per altri motivi che vi trovate qua».
Il plurale usato da Perrini – «voi» – comprende anche Michele Corbusiero, che assieme a Marco ha sporto denuncia. Perchè anche lui, che ha 46 anni e il 70 per cento di invalidità  per un infarto, è stato spostato alla Itca: «Mi hanno messo a respirare tutti quei fumi, una cosa allucinante», dice. «Eppure nel mio certificato medico[2] è scritto che non posso stare vicino a fumi e solventi». Michele dopo un mese che è lì sta male, finisce spesso in infermeria e non riesce a lavorare. Eppure anche lui racconta: «Prima non ho mai fatto un giorno di malattia, non so quanti premi di produzione ho preso dal ’97». Nell’agosto scorso è svenuto in postazione, ed è dovuta venire l’ambulanza, evento che si è verificato di nuovo poche settimane dopo.

Quel 14 luglio del 2010
Nella registrazione si dice un’altra cosa importante: Giovanni Barozzino, uno dei tre operai Fiom licenziati, avrebbe avuto questa sorte perché «difendeva i lavoratori fino allo spasimo». Barozzino, con Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, avrebbe interrotto la produzione bloccando i carrelli del nastro trasportatore. Lo sciopero, che coinvolgeva tutti i sindacalisti delle altre sigle, si è protratto dalle 2.10 alle 2.30 di notte. Ma perché sono stati licenziati i tre della Fiom, quando erano presenti anche Cisl e Uil?

Nel difendersi, Barozzino mostra anche un tabulato telefonico che prova come alle 2.24 non si trovasse nel luogo in cui gli viene attribuita l’interruzione della produzione: «Si trovava a 200 metri dallo sciopero», dice l’avvocato Paolo Pesacane, che segue la causa , «e ci sono anche diverse testimonianze a confermarlo».

  In due interviste rilasciate a Serena Gennaro per il sito ‘L’Isola dei cassintegrati’, Giovanni Barozzino diceva: «Il nostro è stato un licenziamento politico. Tre settimane prima avevo ricevuto un sms (vedi sopra ndr) che mi avvisava di stare attento al nuovo gestore operativo, Tartaglia». Tartaglia, proprio quello che ha minacciato di morte un altro operaio, Ivan.

Su quella notte c’era anche una dichiarazione firmata da tutti i presenti, compresi i sindacalisti Cisl e Uil, in difesa dei tre operai. «Quando però si è arrivati alla seconda fase del processo», spiega il legale Pesacane, «i sindacalisti hanno sminuito l’importanza della dichiarazione, hanno ritrattato dicendo che era prassi comune difendersi tra lavoratori». Il 14 luglio 2011, a un anno esatto da quello sciopero, i tre sono stati licenziati in via definitiva.

Minacce e insulti
Aldo Laspagnoletta, operaio, è stato tra quelli che hanno chiesto in giro spiegazioni su questi licenziamenti. Un giorno, mentre lavorava, è arrivato da lui Francesco Tartaglia. Sostiene Aldo che gli avrebbe detto: «Tu sei l’amico di Barozzino. L’amico tuo è una zanzara fastidiosa da schiacciare. Faremo pulizia e cominceremo dai più cicciottelli». Aldo pesa 120 chili.

Nonostante questo, Laspagnoletta ha testimoniato a favore di Barozzino e gli altri al processo. «E dopo mi hanno spostato in linea, che non c’entra nulla con la mia qualifica di conduttore di sistemi automatizzati», sostiene.

Intanto, a Melfi, è arrivata la cassa integrazione: «Da un anno lavoriamo solo tre giorni a settimana. In questi tre giorni, in cui facciamo turni massacranti, produciamo tante macchine quante ne facevamo prima in cinque giorni». In media il surplus è di 100 vetture in più prodotte ogni giorno, rispetto a prima del 2010. Dice De Nicola: «Per questo c’era stato lo sciopero che è costato il posto a Barozzino e agli altri». Aggiunge Marco Forgione: «Per chi non ha un lavoro i fortunati siamo noi, quelli ancora col posto fisso. Ma ora mi chiedo: a quale prezzo siamo disposti a tenercelo stretto?».

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Endnotes:
  1. minacciare un operaio: http://www.youtube.com/watch?v=339PKZb2Jb4
  2. nel mio certificato medico: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/melfi-il-certificato-medico/2174545

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