Mamme tunisine in cerca dei loro desaparecidos

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Sono detective a caccia di fantasmi. E quei fantasmi sono i loro figli, nipoti, fratelli. «Il mio Mohamad, 19 anni, è partito a marzo dopo essere stato colpito da una pallottola a una gamba durante la rivoluzione. I suoi cugini in Germania l’hanno riconosciuto in un filmato televisivo a Lampedusa», dice Mahrzia Raufi mostrando la foto di un ragazzo sorridente. Il velo bagnato dall’acqua che viene giù dal cielo, gli occhi fissi sul portone del consolato tunisino di Palermo, al collo l’appello alle autorità : «Aiutateci a trovarli».

Sono i nuovi desaparecidos, inghiottiti nel vortice delle rivolte arabe, delle migrazioni, degli assembramenti sui barconi, dei respingimenti in mare. Tutti partiti l’anno scorso, la gran parte spariti tra gennaio e marzo. I fantasmi del Mediterraneo: finiti in un Cie, in un carcere, in un bassifondo di qualche città  o – peggio – negli abissi di quel grande cimitero che è il canale tra la Sicilia e il Maghreb. O forse ancora nascosti da una nuova identità  (etiope, eritrea, palestinese) dichiarata per ottenere il permesso d’asilo. In Tunisia ne mancano all’appello 800 – trecento dei quali solo nella capitale – quasi la metà  dei 1.500 partiti dal Nord Africa che anche l’Alto commissariato delle Nazioni unite qualifica come «missing».

Perduti, scomparsi nel nulla. Sei di quelle famiglie che protestano laggiù da mesi sono venute a Palermo con le fotografie dei loro ragazzi nelle mani per poi bussare alle porte dell’ufficio migrazioni di Agrigento – quello da cui dipende Lampedusa – e per andare infine a Roma, dove domani saranno ricevute al nostro ministero degli Interni. Tutti aggrappati a una voce smozzicata sentita sopra a un barcone – «Mamma, sono partito, ci sentiamo quando arrivo, evviva la libertà » – al fotogramma confuso di qualche tv, alle immagini pubblicate dai giornali. «Non c’è dubbio, guardate – dice Mahrzia – quello è sicuramente mio figlio, non si può sbagliare. Magari non può telefonare, non ha i soldi, è prigioniero. Non sa che sua madre è qua e che non si rassegnerà  mai». Accanto a lei c’è Imed Soltani, che cerca i suoi due nipoti, Slim e Belahsen. «Hanno pagato mille ciascuno per imbarcarsi, sono arrivati sicuramente in un gommone con 22 persone a Linosa il 2 marzo, lo hanno confermato i carabinieri» spiega Adel Laid, dell’associazione Arca, che segue da vicino il caso insieme con Zaher Darwish della Cgil immigrazione, l’anima dei senza diritti di Palermo. Noureddine M’Barki è qui per il figlio Karime, vent’anni. «Era su un barcone arrivato a Lampedusa insieme con tanti altri, ho la foto. È vivo». Chiedono, i genitori dei desaparecidos, un confronto tra impronte digitali: quelle impresse in Tunisia dai ragazzi al momento del rilascio delle carte d’identità , e quelle rilevate all’arrivo nei Centri di identificazione e di espulsione. Una petizione che ha raccolto oltre 1.500 firme e ottenuto un’interrogazione parlamentare di Livia Turco e Gianclaudio Bressa. Dopo giorni di silenzio, il governo tunisino ha battuto un colpo, aprendo uno spiraglio di dialogo. Ma restando irremovibile sulla chiusura dei cordoni della borsa per quel che riguarda le spese di ospitalità . «I primi giorni ha pagato l’albergo – racconta Zaher Darwish – poi hanno dormito in una moschea e nelle case di amici». Nadia Ajmi, che ha visto il figlio di 21 anni, Rami Ghrissi, vendere prima il computer e poi la moto per pagarsi il biglietto per Lampedusa. Lì, in Tunisia, adesso spera come Sameh, che l’ultima volta ha sentito la voce di suo figlio già  in mare: «Mamma, siamo partiti da un’ora, chiamami domani», e poi per giorni, per mesi, è impazzita dietro al messaggio automatico del telefono staccato. Nessuno vuole pensare a tutti quelli che sono partiti senza mai arrivare, alle tombe dei senza nome a Lampedusa, se tomba è una gettata di calce bianca con la scritta: extracomunitario. Nessuno vuole pensare ai naufragi che si susseguono anche in questi giorni. Perché a poche miglia di distanza da quell’isola dove i migranti sono al centro della campagna elettorale per il nuovo sindaco, si muore ancora. Il 14 gennaio – racconta Fortress Europe, il blog che tiene la conta delle vittime quattro imbarcazioni sono salpate dalla costa a est di Tripoli, due sono state salvate dalla guardia costiera maltese, una dai militari italiani. La quarta, che era partita carica di 55 uomini, è stata ritrovata alla deriva con un solo passeggero a bordo. Morto. «L’altro giorno – racconta Darwish – a un anziano in Tunisia è arrivata la notizia che suo figlio fosse tra le vittime. Lui non ha retto al dolore ed è morto sul colpo. L’indomani abbiamo saputo che il ragazzo era vivo».

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“Ma per molti di loro non c’è speranza“
Intervista a Fulvio Vassallo

Non creiamo false aspettative, credo che gran parte degli ottocento migranti che mancano all’appello siano finiti in fondo al mare, a marzo 2011 ci furono almeno tre naufragi di barconi partiti dalla Tunisia». Non è ottimista Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto d’asilo all’Università  di Palermo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e rappresentante del Forum antirazzista di Palermo.
Ma alcuni di questi genitori sostengono di avere le prove dell’arrivo in Sicilia dei loro figli…
«E questa è l’altra storia. Che è l’esito dell’assoluta situazione di incertezze che si determinò perché i migranti non venivano identificati immediatamente con le impronte digitali: questo avveniva più tardi, a Lampedusa o nei Cie dove venivano successivamente portati. Aggiunga pure che i primi sbarchi avvennero il 7 febbraio, ma la richiesta di protezione internazionale fu accordata dall’Italia soltanto il 5 aprile. Molti fuggirono dai Centri senza neanche essere ancora stati identificati».
Perché non chiamare a casa per dire: sono vivo?
«Qualcuno può avere dato false generalità  e può essere stato arrestato. In questo caso ha paura di scoprirsi, di rischiare un’altra condanna o di essere rimpatriato, anche perché – dopo la caduta di Ben Alì – il trattamento per chi è emigrato clandestinamente non è molto sereno. Il periodo di detenzione in Italia, per quelli trovati senza documenti, nella maggioranza dei Paesi europei è da sei mesi a un anno: quindi aspettano di uscire».
Perché non avviare il confronto delle impronte, di fronte all’ansia di centinaia di madri?
«Il canale di dialogo si è appena aperto, ma è ancora tutta da verificare la disponibilità  della Tunisia. Le autorità  italiane, dal canto loro, si erano dette disponibili a verificare le impronte che avrebbe ricevuto, ma intanto nel frattempo non ha neanche fatto un controllo negli archivi del Paese».
Con la primavera, si aprirà  una nuova stagione di sbarchi?
«Ne dubito fortemente. La Libia vive una situazione di controllo tribale: chi ha la pelle nera, se non ha un libico che garantisca per lui, è un uomo morto. È diventata un tappo per i migranti africani, tanto che adesso abbiamo notizia di somali in Ucraina, di eritrei bloccati in Sinai, in mano a predoni e trafficanti di organi. Per quel che riguarda la Tunisia, la situazione è fluida, e anche questa storia dei desaparecidos è stata utilizzata per dire: avete visto che succede se fate partire i vostri figli? Non c’è la guerra, non si vedono chiaramente le opportunità  della partenza. Potranno arrivare nell’ordine di tre o quattromila, ma l’esodo dei 60 mila dell’anno scorso non lo vedremo».


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