L’Uomo che Inventò Steve Jobs
«Solo i fanciulli che hanno ingegno», osservava Montesquieu, «sembrano stupidi». Ciò che di solito attrae nei discorsi vivaci di un fanciullo, egli precisava, proviene dalla sua stupidità , mentre proprio i ragazzi che sembrano sciocchi posseggono spesso quel senso precoce delle cose che li rende in qualche modo più riservati. L’osservazione di Montesquieu sembra perfettamente attagliarsi ad Alan Turing, uno dei venti massimi scienziati del Novecento secondo l’elenco del Time del 1999, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita.
Come racconta l’eccellente biografia di Andrew Hodges, Storia di un enigma, Alan, a quasi nove anni, non aveva ancora imparato a fare le divisioni. Dalla sua espressione sognante e introversa nei ritratti da bambino si intuiscono pure le preoccupazioni della madre per quel figlio “schivo e assente”. L’apparente passività , l’abitudine a starsene appartato con la testa tra le nuvole, quell’atteggiamento di distacco che gli attirava a volte giudizi poco benevoli, si accompagnavano però a un’intelligenza assolutamente geniale. Nel 1936 Alan Turing pubblicava infatti un articolo fondamentale Sui numeri computabili con una applicazione al problema della decisione. Era la descrizione del primo e principale modello su cui si fonda oggi tutto il calcolo automatico. Dalle lezioni di Max Newman, Turing aveva appreso l’esistenza del problema della decisione enunciato da David Hilbert al Congresso Internazionale del 1928 a Bologna: esiste un metodo definito che, applicato a un qualsiasi asserto matematico, sia in grado di dirci se questo è dimostrabile? Il punto cruciale era come intendere il termine “metodo”. Newman ne parlava come di un processo meccanico, privo della estemporaneità creativa attribuibile alla mente umana. Secondo lui doveva trattarsi di un algoritmo, di una procedura non troppo dissimile da quella con cui si impara a sommare o a moltiplicare due numeri. Turing dimostrò nel suo articolo che quell’algoritmo non può esistere: per farlo concepì un dettagliato modello di calcolo, la cosiddetta macchina di Turing. Questa era descritta in termini di stati o configurazioni da cui dipendeva l’azione di singoli componenti meccaniche, come uno scanner che si muove avanti o indietro lungo un nastro infinito diviso in caselle, in grado di leggere o scrivere un carattere in ciascuna casella. La macchina assomigliava insomma a una banale macchina da scrivere, che stampa una lettera minuscola o maiuscola a seconda della sua configurazione; ma assomigliava anche a un calcolatore umano che legge, somma o moltiplica due numeri a seconda del suo “stato mentale”. Turing cominciava a immaginare che gran parte del cervello potesse funzionare come una macchina, producendo in modo deterministico reazioni precise, se pur molto complesse, a stimoli ricevuti.
Piuttosto singolare era che Turing spiegasse un concetto matematico astratto come la calcolabilità ricorrendo a nastri e a scanner. Ma uno degli aspetti essenziali dell’invenzione di Turing è appunto questa: da un lato, la sua macchina è descrivibile in termini puramente astratti; dall’altro, sarebbe fuorviante rinunciare del tutto, per descriverla, alla metafora meccanica. Altri logici e matematici elaborarono in quegli anni modelli teorici di calcolabilità equivalenti alla macchina di Turing, ma questa si prestava meglio di altri a collegare il concetto matematico di calcolabilità ai progetti di fabbricazione di un calcolatore digitale (per questo è considerato il padre dei computer, dai grandi calcolatori all’Apple di Jobs).
Di macchine ce n’erano infinite, ciascuna con un suo compito limitato: per sommare due numeri occorreva una macchina diversa da quella deputata a simulare la traiettoria di un proiettile, oppure a giocare a scacchi. Ma Turing dimostrò matematicamente – fu questa una delle sue scoperte più sensazionali – che esiste una macchina universale in grado di simulare qualsiasi altra macchina e quindi di eseguire da sola qualsiasi compito di natura algoritmica. Nel 1947 Turing presentò alla London Mathematical Society il progetto di fabbricazione di un “cervello”, di un calcolatore digitale su grande scala, come versione pratica della sua macchina universale. John von Neumann, impegnato a realizzare indipendentemente, negli stessi anni, i primi calcolatori digitali negli Stati Uniti, riconobbe che l’idea di una programmazione automatica è un’applicazione del concetto teorico di macchina universale concepito da Turing.
A Turing si devono contributi di grande rilievo in varie discipline legate alla progettazione teorica e pratica del calcolatore. Ad esempio, in un importante articolo del 1948 sulla propagazione dell’errore nel calcolo matriciale, evidenziava un “indice di condizionamento” che è un parametro fondamentale per valutare l’efficienza di molti algoritmi.
La ricerca di un modello generale di calcolo che unisse l’astratto e il concreto era per altro coerente con le inclinazioni intellettuali di Turing. La sua attenzione era sempre rivolta, infatti, agli algoritmi matematici che regolano molti processi riscontrabili nella vita reale, come la crescita degli organismi o il funzionamento di congegni elettromeccanici per la trasmissione di segnali. Proprio questi congegni ebbero nel suo destino una parte decisiva: Turing partecipò attivamente al gruppo di esperti distaccato a Bletchley, un sobborgo di Londra, con il difficile e delicatissimo compito di affrontare Enigma, la macchina usata dai tedeschi per cifrare le comunicazioni radio durante la Seconda guerra mondiale. A ben vedere Enigma altro non era che una macchina di Turing, e dalla sua struttura logica dipendeva ora la conoscenza delle posizioni dei sottomarini tedeschi nell’Atlantico e, in definitiva, lo stesso esito finale della guerra. A Bletchley Park, Turing conservava il suo temperamento riservato, innocente ed eccentrico, quello di un puer cui i colleghi attribuivano scherzosamente un’età di 21 o perfino di 16 anni. In questa inquietante combinazione di innocenza e di esperienza, di gioco e di guerra, di pensiero e di concreta iniziativa, in cui l’efficienza scientifica rendeva ancora più complesso il rapporto tra il bene e il male, era allora destino che l’intelligenza stessa perdesse la propria ingenuità ed autonomia, in un difficile compromesso con la politica e con l’azione.
In questa cornice si potrebbe leggere, oltre alla crisi di tutto un secolo, il senso della morte di Turing. Perseguitato e processato per la sua omosessualità , estraneo all’industria colossale che si andava costruendo attorno alla sua mente, considerato forse un rischio per i suoi comportamenti e contatti incontrollabili dai servizi inglesi e americani, Turing morì il 7 giugno 1954: mordeva una mela intinta nel cianuro, simile a quella che la strega malvagia aveva preparato a Biancaneve. Lo stesso incantesimo raccontato dal film che l’aveva così vivamente impressionato diversi anni prima. Non ci furono indagini e la versione ufficiale finì per accreditare la tesi del suicidio. L’esempio di Turing dimostra ancora una volta come il mondo, per quanto malvagio, incomprensibile e inabitabile, possa trovare in un semplice individuo, un infinitamente piccolo, un punto di verità e di innocenza che ne spieghi il corso e ne trascenda nel contempo gli squilibri e la follia.
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