«Tibet libero» Altri tre monaci si danno fuoco
PECHINO — La guerra del fuoco non si ferma. Venerdì — ma la notizia è filtrata solo ieri attraverso le fitte maglie del controllo cinese — tre tibetani si sono autoimmolati nel Sichuan occidentale, la zona al confine con il Tetto del mondo virtualmente isolata dal resto del Paese. È stata Radio Free Asia a dare la notizia, ripresa poi dalle maggiori agenzie. I tre si sarebbero cosparsi di un liquido infiammabile, poi avrebbero gridato slogan indipendentisti e in favore del rientro dall’esilio del Dalai Lama, capo spirituale del buddhismo tibetano, fuggito dalla Repubblica Popolare nel 1959. Tre scintille e l’odore acre della combustione di vestiti e carne si è diffuso in un villaggio nella contea di Seda, Serthar in lingua locale, al centro dei recenti, sanguinosi disordini. La polizia è intervenuta in pochi attimi. Due dimostranti sono stati salvati, anche se non si sa in che condizioni si trovino: Tsaptsai Tsering, 60 anni, e il suo compagno di lotta Kyarel, 30, sono stati ricoverati. Ma per uno dei tre, rimasto senza nome, non c’era già più nulla da fare: è morto sul posto. Con questo ennesimo, drammatico episodio, la conta dei tibetani — in gran parte monaci e monache — che si sono dati fuoco negli ultimi undici mesi sale a 19. Di questi, almeno 13 hanno perso la vita.
Dall’inizio di gennaio, in migliaia sono scesi nelle strade per protestare contro «l’occupazione» del Tibet da parte della Cina e per invocare il ritorno del Dalai Lama da Dharamsala, in India. Le forze speciali inviate da Pechino hanno risposto con durezza e si sono contate diverse vittime: tre per le autorità , decine per le organizzazioni tibetane all’estero. Le contee al centro della rivolta, soprattutto Seda (Serthar) e Luhuo (Draggo), sono state isolate: posti di blocco lungo le strade di accesso, telefoni e Internet tagliati. Tuttora è impossibile comunicare e le notizie escono a singhiozzo: impossibile verificarle. Certo è che il governo centrale teme una riedizione della «grande sollevazione» che nel 2008 (il 14 marzo cadrà l’anniversario) provocò 22 morti ufficiali tra Lhasa e le contee che oggi fanno parte della provincia del Sichuan ma sono a maggioranza tibetana. Ieri, una fonte anonima del governo di Pechino ha negato con forza «che sia accaduto alcunché nella regione». D’altro canto, la posizione ufficiale è nota: i monaci che si danno fuoco sono «terroristi». Recentemente, il Quotidiano del Popolo scriveva che «la stagione delle cosiddette auto immolazioni è un complotto che nasconde finalità politiche eversive. Dimostrato se non altro dal fatto che questi sedicenti monaci violano tutte le regole religiose buddhiste che non consentono in alcun modo di spegnere una vita, neppure la propria». Mentre il Global Times, giornale su posizioni nazionaliste, spiegava come «questi che si danno fuoco non fanno altro che imitare gli appartenenti ai fuorilegge della Falun Gong (una scuola buddhista entrata in clandestinità , ndr). Ora, la cricca del Dalai Lama rischia di uscire dalla religione ufficiale».
Il 22 febbraio cade il Capodanno tibetano, una stagione tradizionalmente «difficile» per la Regione autonoma riconquistata dalle truppe di Mao nel 1950. Per Pechino, l’antico regno governato dal Dalai Lama «ha sempre fatto parte della Cina». I tibetani — di fatto indipendenti dal crollo dell’ultima dinastia imperiale dei Qing (1644-1911) fino a poco dopo la nascita della Repubblica Popolare — chiedono maggiore autonomia e la fine della «colonizzazione cinese». Due verità che continueranno a scontrarsi a lungo.
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