by Sergio Segio | 28 Febbraio 2012 11:47
Qualche giorno fa si è letto che un tribunale della Nuova Zelanda, dando torto al governo, ha fermato la vendita a una società cinese di 16 aziende agricole per 166 milioni di dollari. Episodi come questo si vanno moltiplicando. Si è calcolato che negli ultimi 5 anni siano Stati acquistati, o comunque negoziati fra privati o governi di stati diversi, territori per 30 milioni di ettari: pressappoco la superficie delle Filippine.
Cominciamo col chiederci chi sono i protagonisti. Per i protagonisti passivi, e cioè coloro che vendono, l’elenco è fatto abbastanza presto. Sono, in primo luogo, i Paesi più poveri, quelli che non hanno nient’altro da vendere; e quindi, prevedibilmente, la maggior parte dei Paesi africani (anche se ce ne sono, come il Sudafrica o Gibuti, tra i compratori). Ma a vendere pezzi di territorio sono anche (tra gli altri) Filippine, Pakistan, Indonesia, Laos, Ucraina, Cuba.
Ci sono persino due importanti «Bric», cioè Paesi che stanno diventando potenze economiche mondiali, come Brasile e Russia. Dunque ra i venditori non ci sono solo Paesi poveri, ma anche Paesi che hanno molta terra da vendere.
Passiamo agli acquirenti. Il lettore penserà subito alla Cina, perché della Cina si conosce la fame crescente di materie prime, oleodotti, porti (a cominciare dal Pireo), contratti all’estero per infrastrutture (strade, raffinerie) e così via. Anche di territori da coltivare. Il grande Paese ha bisogno di alimentare la propria crescita, ma anche di attrezzarsi per nutrire i suoi abitanti: quasi un quinto della popolazione mondiale, che vive sul 7% delle terre coltivabili del pianeta. Non a caso, il Documento n. 1 del 2007 del Comitato Centrale del Pcc insisteva sulla necessità per l’agricoltura cinese di «uscire dalle proprie frontiere»: una direttiva che si è tradotta nell’uscita di capitali, tecnologie, manodopera. Non si sa con esattezza quanti cinesi lavorino oggi in Africa nei vari settori: le valutazioni vanno da 200mila a un milione.
Tuttavia la Cina occupa per ora solo il terzo posto nella speciale classifica degli acquirenti, nell’ordine: Corea del Sud, India, Cina, Arabia Saudita ed Emirati, Giappone (più indietro ci siamo anche noi, con presenze in Africa e in Europa Orientale). Anche se la forza e l’attivismo internazionale della Cina sembrano destinarla a scalare, molto presto, la testa della classifica. La quale è comunque incerta: sia perché i governi (e i protagonisti in genere) non forniscono volentieri i dati; sia perché non sono chiari, ma ambigui e vaghi, i confini che separano la piantagione gestita da un vecchio colono dal tradizionale investimento di una multinazionale, fino agli acquisti di cui parliamo (e ai quali ci avviciniamo per approssimazioni successive), che sono un fenomeno degli ultimi anni.
Si sarà già capito, dall’elenco qui sopra, che cosa spinge a comprare terreni agricoli in altri Paesi. La prima preoccupazione è di riuscire a fronteggiare, in prospettiva, ulteriori aumenti del prezzo della materie prime agricole, tali da mettere in pericolo la sicurezza alimentare. Della Cina si è detto. La Corea del Sud produce solo lo 0,2% del grano e lo 0,8% del mais di cui ha bisogno. Quanto all’India, è fin troppo nota una povertà che continua ad accompagnarsi a settori in sviluppo assai rapido. Del Giappone si sa invece che ha un’agricoltura progredita ma su una superficie limitata, ben lontana dal garantire il fabbisogno alimentare di una popolazione la cui densità è di 339 abitanti per chilometro quadrato (contro i 201 dell’Italia).
Sulle ragioni che spingono alla ricerca di terreni coltivabili e fertili i Paesi della penisola arabica non occorre insistere più di tanto, se si pensa ai deserti e alle steppe su cui si estendono. Ma naturalmente, per spiegare questo elenco di compratori manca ancora un elemento, e cioè i capitali. Della Cina si sa che è il Paese che ne ha più di ogni altro. Gli Stati arabi trasudano ricchezza. La Corea del Sud avanza tra i ricchi del mondo, mentre il Giappone, pur dovendosi curare le ferite dell’economia e della natura, resta uno dei Paesi più avanzati. Le motivazioni economiche sono, naturalmente, decisive: ma un po’ sempre, e in maniera vistosa nel caso della Cina, le accompagnano ragioni geopolitiche, di prestigio e di strategia mondiale.
È bene aggiungere, tuttavia, che ci sono anche delle eccezioni, e non poco curiose. Un tipico caso di anomalia è quello delle isole Maldive, minacciate di essere entro pochi anni ricoperte dall’oceano a causa del riscaldamento del clima. Si può capire che persino questo piccolo stato, non ricco, ma con buoni proventi dal turismo, compri sulla terraferma (africana, ovviamente) terreni da coltivare o sui quali – perché no? – rifugiarsi.
Quali sono le caratteristiche specifiche del fenomeno di cui stiamo parlando? La prima è quantitativa. Qui non si tratta più di tenute sia pur vaste, piantagioni o appezzamenti di terreno di medie dimensioni: si tratta invece di territori molto estesi, quanto una provincia italiana o anche più. Territori che sono, quasi sempre, i più fertili di Paesi la cui superficie coltivabile è in genere insufficiente. La propaganda ufficiale di venditori e compratori li descrive come terreni incolti o abbandonati, che l’arrivo di stranieri renderà fruttuosi.
In realtà , sono quasi sempre terreni sfruttati, sia pure con metodi primitivi, da un’agricoltura di sussistenza, ad opera di popolazioni spesso costrette ad abbandonare la terra perché possa essere consegnata, chiavi in mano, ai nuovi proprietari. I quali ultimi portano con sé, in molti casi, non solo tecniche più avanzate ma anche la manodopera. Questo vale soprattutto nel caso dei cinesi, che arrivano spesso sulle nuove terre portando con sé migliaia di lavoratori (molte volte carcerati cui viene condonata una parte della pena), che conducono per qualche anno una vita da reclusi, senza contatti con la popolazione locale. Si può capire che le reazioni di quest’ultima siano in molti casi ostili, anche se poco in grado di trasformarsi in vera opposizione. I governi tendono invece, molto spesso, a favorire le vendite (o gli affitti, o le joint-venture): è il caso, più di altri, del Brasile, dell’Etiopia, o del Pakistan nei confronti dei paesi arabi del Golfo. A Papua, per fare un altro esempio, sono i politici e gli amministratori locali a contattare i sauditi offrendo loro delle terre.
Alle dimensioni dei territori va aggiunta la durata dei contratti, che raggiunge spesso i 99 o 100 anni. Molti osservatori parlano di un’agricoltura «delocalizzata». Altri sottolineano che una volta territori così estesi si ottenevano con conquiste militari e si chiamavano colonie, mentre ora si comprano. Non solo: certi insediamenti stranieri, soprattutto cinesi, sono organizzati e diretti sulla base di una specie di silenzioso (quando non ufficiale) diritto di extraterritorialità . A parti rovesciate, qualcosa di molto simile a quanto accadde nella Cina dell’Ottocento dopo le guerre dell’oppio.
Un episodio tra i più significativi delle contraddizioni prodotte dall’acquisto di terre nei paesi del Sud è quello che si è verificato nel 2008-2009 nel Madagascar. La multinazionale sudcoreana Daewoo è entrata in trattative con il governo per ottenere per 99 anni il 40% delle terre coltivabili di tutto il paese (all’incirca la superficie della Campania) per produrvi granoturco e olio di palma. Daewoo non pagava praticamente nulla allo stato malgascio, ma si impegnava a costruire infrastrutture, a creare 45mila posti di lavoro e a rendere coltivabili terreni in buona parte usati in altro modo (per esempio coperti da foreste). Le proteste sono partite dalle popolazioni danneggiate ma si sono poi estese e radicalizzate, fino a determinare la caduta del presidente Ravalomanana, accusato di avere “svenduto” buona parte del Paese. Il suo successore, Rajoelina, ha detto: «Non siamo contrari all’idea di collaborare con gli investitori, ma se vogliamo vendere o affittare la nostra terra dobbiamo modificare la Costituzione, bisogna consultare la popolazione. Per questo, ora l’accordo viene cancellato».
Un episodio analogo si è verificato nel 2011 in Islanda, protagonisti un miliardario cinese e il governo di Reykjavàk, timoroso che un progetto turistico nascondesse un disegno espansionistico nell’isola, che fa parte della Nato e vuole entrare nella Ue. Per un contratto cancellato, cinque nuovi contratti vengono firmati e altri dieci negoziati. Lasciamo al lettore di giudicare se fenomeni come questo, o come il silenzioso passaggio di cinesi in Siberia (fino a modificare l’assetto demografico di questa regione), non siano tali da esigere, in qualche modo, un ripensamento delle teorie vigenti del colonialismo e dell’imperialismo.
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