L’epopea di Vespucci, l’inventore dell’America

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Sebbene abbia dato il suo nome a due continenti, sappiamo pochissimo della giovinezza e della prima maturità  di Amerigo Vespucci. Nacque a Firenze il 9 marzo 1454: il padre, Nastagio, era un modesto notaio, che cogli anni allargò le sue competenze, diventando notaio della Signoria. Ma di Amerigo Vespucci ci sfugge il volto: secondo Vasari, Ghirlandaio l’avrebbe rappresentato in un affresco della Chiesa di Ognissanti: ed è possibile che Leonardo gli abbia dedicato, non sappiamo quando, un disegno al carboncino.
Vespucci cominciò a vivere, ad avere un nome e una persona, quando entrò sotto l’influenza di Lorenzo de’ Medici, e della sua «versatilità  luminosa, della miracolosa facilità », che irradiava intorno a sé e su tutta Firenze. Se non a Lorenzo, Vespucci era legato a un suo cugino, Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, di qualche anno più giovane di lui, che Lorenzo aveva adottato ed educato come un padre scegliendo i suoi educatori e occupandosi di amministrare i suoi beni. Di Lorenzo di Pierfrancesco, sappiamo moltissimo. Era il misterioso Mercurio che appare nella parte sinistra della Primavera di Botticelli: possedeva una straordinaria precocità  e maturità , una cultura rara persino in quei tempi coltissimi: era amico di Poliziano e di Marsilio Ficino; fu il destinatario dellaPrimavera, di Pallade e il centauro e della Nascita di Venere del Botticelli; e sempre al Botticelli commissionò le illustrazioni della Divina Commedia. Negli anni novanta protesse il giovane Michelangelo, e aspirò a diventare signore di Firenze. Come Mercurio, si occupava di commerci e di banche, sia in Italia che in Spagna: Vespucci lavorava per lui e acquistava per lui merci preziose.
Qualche anno prima, era accaduto un evento, che assunse presto una irradiazione simbolica nella vita di Firenze e della cerchia medicea. Un cugino di Amerigo, Marco Vespucci, aveva sposato nel 1468 Simonetta Cattaneo, che discendeva da grandi famiglie liguri. Simonetta era nata nel 1453: aveva trascorso l’infanzia tra Portovenere, Lerici, Genova, una villa di famiglia a Piombino; ed era stata educata alle arti del Trivio e del Quadrivio. Nessuna, meglio di lei, poteva incarnare la figura della giovane dama del Rinascimento. Quando si trasferì a Firenze come moglie di Marco Vespucci, diventò l’amica, o l’immagine amorosa, o la «ninfa» di Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo. Il 29 gennaio 1475 Giuliano vinse una Giostra celebrata a Firenze. Aveva una armatura scintillante, vesti bianche ricamate di pietre preziose, un cavallo donatogli da Federico da Montefeltro; e portava un grande stendardo di taffetà , dipinto da Botticelli. Lo stendardo, che raffigurava Pallade, è andato perduto: ma ne conserviamo una precisissima descrizione. Pallade era vestita d’un abito d’oro fino: teneva i piedi su fiamme che ardevano rami d’ulivo; e guardava fissamente il sole alto nel cielo. Sotto, un foglio scritto a lettere d’oro diceva: La sans par, l’impareggiabile. La sans par era Simonetta Vespucci.
Quasi nello stesso tempo, Poliziano scrisse le Stanze, dedicate di nuovo a Giuliano de’ Medici e a Simonetta Vespucci, le quali donarono colori e immagini alla Primavera di Botticelli. Ecco Simonetta, nel cuore della foresta:
«Candida è ella, e candida la vesta, 
ma pur di rose e fior’ dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa 
scende in la fronte umilmente superba; 
rideli a torno tutta la finestra, 
e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta, 
e pur col ciglio la tempesta acqueta».
Giuliano, anzi Iulio, le rivolge la parola.
«Volta la ninfa al suon delle parole, 
lampeggiò d’un sì dolce e vago riso, 
che i monti avre’ fatto ir, restare il sole 
ché ben parve s’aprisse un paradiso. 
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch’un masso per mezzo avre’ diviso; 
soave, saggia e di dolcezza piena, 
da innamorar, non ch’altri, una Sirena …».
Tutt’attorno una moltitudine di uccelli, di fiori e d’alberi meticolosamente enumerati: abeti senza nocchi, allori, pioppi, platani, cerri, faggi, corniole, olmi, frassini, ellera, bossi, mirti; che ritornano nella moltitudine d’alberi e fiori della Primavera.
Pochi anni dopo, il 26 aprile 1476, quando aveva ventidue o ventitré anni, Simonetta Vespucci morì di tisi. A nulla servirono le cure scrupolose del medico di Lorenzo de’ Medici: la salma venne portata scoperta da casa al luogo della sepoltura; e coloro che parteciparono alla cerimonia piansero tutte le loro lacrime. «Morì nella città  nostra — scrisse Lorenzo de’ Medici in alcune bellissime pagine del Comento — una donna, la quale mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino; non è gran meraviglia, perché di bellezza e gentilezza umana era veramente ornata… E in fra l’altre sue eccellenti dote aveva così dolce ed attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevano qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati… La compassione della morte per la età  molto verde e per la bellezza, che così morta, più forse che mai alcuna viva, mostrava, lasciò di lei un ardentissimo desiderio». «Si può giungere alla perfezione — concludeva Lorenzo — solo attraverso la morte, e il pensiero e la contemplazione della morte». La notte dopo la cerimonia, Lorenzo ed un amico passeggiavano parlando di questa sventura. In cielo, c’era una stella chiarissima, che superava di gran lunga lo splendore delle altre stelle. Rivolto all’amico, Lorenzo disse: «Non ce ne meravigliamo, perché l’anima di quella gentilissima o si è trasformata in questa nuova stella o si è congiunta in essa».
Così la figura di Simonetta Vespucci ricevette l’ultimo tocco: la bellezza, la giovinezza, i tratti squisiti, sereni e pensosi del viso, gli occhi scintillanti di luce interiore, i lunghi capelli biondi sciolti, l’ideale neoplatonico della ninfa, la morte prematura, il dolore e le lacrime dei fiorentini, la sepoltura, l’identificazione con la stella luminosissima — tutto quanto aleggiava, in quel momento, nel cielo di Firenze fu proiettato sulla persona di Simonetta. Botticelli la raffigurò in diversi quadri, tra i quali La nascita di Venere: nelle illustrazioni della Divina Commedia dedicate a Beatrice; e in un ritratto postumo di Giuliano de’ Medici, morto esattamente due anni dopo, dove Simonetta appare nell’immagine di una tortora poggiata su un ramo secco, segni di morte e di afflizione. Simonetta era diventata un grande mito di bellezza e di morte; un simbolo sovrannaturale di perfezione, al quale tutta la Firenze tardo-medicea partecipava e dal quale si sentiva protetta. Altri artisti la raffigurarono: Piero di Cosimo nei tratti di una Cleopatra, che portava un aspide attorno al viso. L’ultimo ricordo venne ancora da Botticelli: secondo una tradizione che credo verosimile, lasciò scritto di voler venire sepolto nella Chiesa d’Ognissanti, ai piedi di Simonetta.

Sotto l’ombra protettiva di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, Amerigo Vespucci partecipò e collaborò alle fitte discussioni geografiche e cosmografiche, che in quel periodo erano vivacissime a Firenze. Al cuore di queste discussioni, stava sempre Paolo dal Pozzo Toscanelli (al quale Eugenio Garin ha dedicato un bellissimo ritratto): figura straordinaria di geometra, matematico, filosofo, medico, astronomo, astrologo, che discorreva con Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Nicola Cusano. Qualche decennio prima, era stata tradotta in latino la Cosmographia di Tolomeo: mentre, nel poema Il Guerin meschino, che ebbe un grande successo di lettori, Andrea da Barberino divulgava le nuove conoscenze geografiche. Firenze derivava notizie ed echi dagli ambienti mercantili di Pisa e di Venezia, dagli Ordini Mendicanti, da banchieri e imprenditori, e dalle immaginazioni classiche e celtiche sulle Isole felici: le Canarie, Madera, le Azzorre. A partire da questo momento migliorarono e si moltiplicarono le carte nautiche, i portolani, i manuali mercantili e i planisferi.
L’interesse geografico aveva un fondamento pratico: come raggiungere la Cina e il Giappone? In Cina era caduta la dinastia mongola: i sovrani mongoli della Persia si erano convertiti all’Islam; così ora, dopo un secolo e mezzo di viaggi protetti dalla benevola tolleranza dei Khan, le strade di terra verso la Cina erano nuovamente chiuse. L’Asia meravigliosa e miracolosa di Marco Polo si poteva raggiungere varcando il capo di Buona Speranza, come Bartolomeo Diaz e Vasco de Gama fecero verso la fine del quindicesimo secolo. Ma la strada verso Occidente, quella che si percorre attraverso le Isole felici? Con l’aiuto del mappamondo prestatogli da Francesco Castellani, Paolo dal Pozzo Toscanelli cominciò i suoi calcoli. Nel giugno 1474, inviò a Fernam Martins, canonico di Lisbona, «amico e familiare» del re di Portogallo, una lettera famosissima che Cristoforo Colombo conobbe. «Rimetto a Sua Maestà  una carta fatta con le mie mani, nella quale si trovano disegnati i vostri lidi, e le isole dalle quali il viaggio si dovrebbe cominciare, sempre verso Occidente, e i luoghi ai quali si dovrebbe giungere, e quanto si dovrebbe declinare dal polo, e dalla linea equatoriale, e quanto spazio, ossia quante miglia converrebbe percorrere per giungere ai luoghi fertilissimi d’ogni specie di aromi e di gemme». 
Toscanelli sognava i grandi edifici reali nelle nuove terre, e i corsi d’acqua meravigliosi per ampiezza e lunghezza, le duecento città  lungo le rive di un solo fiume, i grandissimi ponti di marmo orlati di colonne, i templi e i palazzi coperti d’oro solido, e i «filosofi ed astrologi, per le cui arti e invenzioni fioriscono quei saggi paesi».
Nel 1491, la vita di Amerigo Vespucci interruppe il suo corso. Lasciò Firenze: quell’aria intellettuale e febbrile, dove tutte le attività  umane si trasformavano in arte, quella cultura piena di simboli neoplatonici, dove aleggiava il sogno di Simonetta Vespucci, la sua bellezza, la sua morte, la sua radiosa immortalità . Si trasferì a Siviglia, che presto sarebbe diventata la tumultuosa capitale comune dell’Europa e delle Americhe appena scoperte. Vi lavorò per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e per alcuni grandi mercanti fiorentini, come Giannozzo Berardi, trafficando nel commercio dell’oro e degli schiavi. Tutta la sua vita cambiò. Imparava il suo mestiere non più sulle carte e i mappamondi, ma nei fondaci e sulle banchine dei moli, dove raccoglieva avidamente le notizie giunte dalle Indie. Nel settembre 1494, si occupò della seconda spedizione di Colombo: una grande flotta di diciassette navi e milleduecento uomini, salpata da Cadice. Comprese che quello era il suo momento, atteso da tanti anni. Presto sarebbe partito anche lui per le terre appena scoperte: non come uomo di mare, ma come cosmografo-astronomo, esperto di computi matematici.
La prima spedizione di Vespucci lasciò l’Europa il 10 maggio 1497: quattro caravelle che battevano bandiera spagnola. Toccò le Canarie, e poi mosse verso Occidente, non lontano dai luoghi dove, qualche anno prima, era disceso Colombo. Nelle spedizioni successive — probabilmente due, in parte finanziate dal re del Portogallo — le mete furono più ambiziose. Vespucci arrivò in Venezuela: poi scese verso sud: il 1° gennaio 1502 scorse il luogo dove sarebbe sorta Rio de Janeiro: discese ancora più verso sud, lungo le coste del Brasile, incontrando la foce del Rio della Plata, e toccando il cinquantesimo grado di latitudine; e toccò le rive occidentali dell’Africa, raggiungendo di nuovo Lisbona nel settembre 1502.
Presto cominciò a raccontare le sue imprese, seppure in piccolo spazio: dapprima nel Mundus novus, indirizzato a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, e tradotto in latino dall’italiano: poi nella Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, rivolta a Piero Soderini, gonfaloniere di giustizia a Firenze, forse pubblicata nel 1505. «Ciò che noi abbiamo sopportato davvero in questa immensità  del mare — scriveva drammaticamente nel Mundus novus —, i rischi di naufragio, le sofferenze fisiche innumerevoli, le angosce permanenti che afflissero le nostre anime, tutto ciò lo lascio alla comprensione di quanti hanno avuto esperienza di queste cose e che conoscono cosa significa la ricerca di ciò che è incerto e addirittura sconosciuto… Fummo preda di una così grande paura che avevamo perso quasi ogni speranza di sopravvivere. Nel mezzo di queste tempeste così terribili, del mare e del cielo, piacque all’Altissimo mostrarci il continente, nuova terra e un mondo incognito».
In generale, il tono era molto meno drammatico, perché Vespucci era convinto di essere giunto nel Paradiso Terrestre, o in luoghi che ricordavano il Paradiso Terrestre. L’aria — scriveva — era di rado adombrata da nuvole. Quasi sempre i giorni erano sereni. Talvolta cadeva, leggermente, la rugiada: non vi era quasi vapore, e la rugiada cadeva per tre o quattro ore, e poi si dileguava come nebbia. Gli alberi davano un odore soavissimo e dappertutto mandavano fuori gomme e liquori e sughi. In quel mondo d’aria pura e di profumi, qualcosa ricordava laPrimavera e le Stanze. «Vedemmo infinitissima cosa d’uccelli di diverse forme e colori, e tanti pappagalli, e di tante diverse sorte che era meraviglia; alcuni colorati come grana, altri verde e limonati, e altri neri e incarnati; e el canto delli altri uccelli che istavono nelli alberi era cosa tanto soave, e di tanta melodia, che ci accadde molte volte istar parati per le dolcezze loro».
La notte, Vespucci osservava le stelle dell’emisfero australe: stelle che lui né nessun altro europeo aveva mai conosciuto, tranne i pochi portoghesi che avevano varcato il capo di Buona Speranza, inoltrandosi verso l’India. Ne tenne a memoria venti: chiare come erano chiari, nell’emisfero boreale, gli astri di Venere e Giove. Considerò il loro circuito e i diversi movimenti, e misurò le loro circonferenze e il loro diametro «assai facilmente, avendo io notizie della geometria». Erano — diceva — più grandi di quanto gli uomini pensassero. Vide tre Canopi: due molto chiari, il terzo fosco. Attorno al polo, non c’era Orsa maggiore né Orsa minore: lo circondavano quattro stelle, a forma di quadrangolo; e altre stelle splendevano accesamente, portando nel cielo una luce che noi, sottoposti ai pallidi segni del Nord, ignoriamo. Fra le stelle, vide «l’iride, cioè l’arco celeste, quasi bianco a mezzanotte, che prendeva i colori dei quattro elementi». Scorse la luna nuova congiungersi col sole; e, ogni notte, vapori e fiamme ardenti trascorrevano per il cielo. Tutte le cose che vedeva appartenevano alla gloria del Salvatore, «il quale con meraviglioso artificio fabbricò la macchina del mondo».
Intanto, tornato dal lungo viaggio brasiliano, Vespucci si convinse che le terre che Colombo aveva esplorato e quelle che egli aveva circumnavigato, non appartenevano alle estreme propaggini dell’Asia. Lì non era giunto nessun Marco Polo. Egli aveva conosciuto un Mundus novus: un mondo incognito, che fino allora nessun uomo, provenendo da Occidente o da Oriente, aveva mai visto. Non ebbe bisogno di proclamare la sua verità . I suoi brevi scritti ottennero un grande successo: numerosissime ristampe, e traduzioni. Nel 1507, nel monastero di Saint-Dié, in Lorena, un espertissimo e notissimo cartografo, Martin Waldseemà¼ller, curava la redazione di una nuovaCosmographia di Tolomeo, che avrebbe compreso anche i territori scoperti dagli spagnoli e dai portoghesi. Quando lesse gli scritti di Vespucci, si entusiasmò e decise di tradurli in latino, scrivendo che la quarta parte del mondo si sarebbe dovuta chiamare, da Americus, America. Qualche mese dopo, egli stesso diede l’esempio. In un grande planisfero, incideva sul continente meridionale il nome America, che presto avrebbe contrassegnato anche le terre settentrionali.
Nel marzo 1508, il re di Castiglia nominò Amerigo Vespucci Piloto mayor: primo comandante delle flotte commerciali spagnole, attribuendogli un ricco bilancio per finanziare le sue imprese. Vespucci si trasferì in una nuova casa del Portigo del Carbon, a Siviglia. Il 22 febbraio 1512 morì. Non lasciava figli, ma un nipote fiorentino, che continuò il suo lavoro. Lasciò sopratutto qualcosa di aereo ed invisibile: un semplice nome, che l’aveva accompagnato come un talismano dai tempi di Lorenzo de’ Medici, quando tutto era piccolo e prezioso, sino a questi nuovi tempi, nei quali si doveva vivere in un mondo immenso, sotto stelle ignote e brillantissime.


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