L’emergenza svela i nostri limiti
Sono nevicate certo copiose, persistenti e non ancora esaurite, eventi atmosferici dall’impatto superiore rispetto al regime invernale consueto.
Ma si tratta pur sempre fenomeni che fanno parte della ritmica meteorologica, nei suoi picchi come nelle sue anomalie. Perché allora sono risultati vani o comunque manchevoli tutti gli sforzi per neutralizzare o quanto meno attenuare disagi e difficoltà ?Se dalla Romagna all’Irpinia, da Siena a Campobasso, da Ancona a Frosinone, si sfilaccia fino a spezzarsi l’intelaiatura infrastrutturale, si ferma la rete di distribuzione, si blocca il sistema dei servizi, s’interrompono i processi produttivi e si mette addirittura a rischio il ciclo di sopravvivenza, non ci si può limitare a pensare che tutto ciò sia l’effetto debordante di un inverno particolarmente rigido. C’è qualcosa di più, c’è molto di più.
Quella che si sta abbattendo sulla nostra penisola è una tempesta perfetta, scusate la meteo-allusione. I Comuni hanno le casse vuote e non hanno i mezzi per intervenire (quelli che avevano li hanno dovuti dismettere) e così si affidano a ditte private di dubbia efficienza. La Protezione civile è stata depotenziata a causa di eccesso di potere, acrobazie amministrative, inchieste giudiziarie. Le Regioni stanno messe male anch’esse ma possono proclamare lo stato di calamità naturale (ammesso che qualcuno lo raccolga). Le Prefetture si affannano a coordinare interventi che non intervengono. I vigili del fuoco stentano a operare a causa di bilanci sempre più magri. I carabinieri fanno quel che possono, quando possono, dove possono, e comunque spalare la neve non è mestiere loro. Se chiamato, l’esercito arriva solo se gli si garantisce il gettone di presenza, cosa che i sindaci non sono in grado di assicurare.
È di sicuro un paese senza qualità , il nostro, che taglia sistematicamente la spesa pubblica, anche quella che dovrebbe assicurare l’incolumità dei cittadini. Prigioniero di procedure ambigue e astruse, che se nel passato avevano mostrato tutta la loro inefficienza, oggi, con i nuovi regimi privatistici, risultano perfino peggiorate.
Un paese malato e dunque inerte, il cui unico riflesso vitale è quello di dichiararsi in emergenza per qualsiasi cosa. Un paese costantemente in affanno, ormai stremato, indebolito fin nel suo sistema osseo. Che continua a pensarsi come una grande potenza ma che in realtà poggia su gambe tremanti. Poi c’è chi ci mette del suo, come Alemanno con la pala in mano e le sue penose invettive. Ma quel che accade in questi giorni, sotto i colpi del più soffice degli accidenti, ci restituisce un quadro di drammatica fragilità strutturale.
Se piove con intensità , franano a valle interi paesi in Sicilia o in Liguria e affogano grandi città come Roma e Genova; se non piove e il sole scarica il suo calore sulla terra, ecco che il deserto avanza e incombe; se il mare un po’ s’imbizzarrisce, spariscono all’istante spiagge, arenili e costiere; se poi nevica di brutto, succede quel che sta succedendo. Quand’è che si prenderà atto che qui le priorità non sono né l’alta velocità né i cacciabombardieri, ma all’opposto la cura e la manutenzione dei beni comuni territoriali?
Rigenerare e bonificare
C’è da rigenerare un tessuto morfologico devastato da un’edilizia massiva, sconsiderata, e indebolito dalla deforestazione e dall’abbandono delle campagne. C’è da riaggiustare la rete infrastrutturale che alimenta e sostiene le città , strade, trasporti, fogne, impiantistica, ecc., un sistema sanguigno sempre a rischio d’infarto. C’è da bonificare e consolidare il complesso della distribuzione dell’acqua, delle comunicazioni e dell’energia, un insieme di collettori a cui basta pochissimo per incepparsi o disperdersi.
Ci sarebbe insomma bisogno di un generalizzato programma di salvaguardia e valorizzazione di quel bene comune che è il nostro paese, e invece si continua a consegnare ai privati il patrimonio pubblico, a vendere i servizi collettivi e i beni culturali, a distribuire concessioni per lo sfruttamento di terre e mari. La rinuncia dello stato a custodire i propri beni è insieme causa ed effetto della privatizzazione d’ogni cosa e in ogni dove. Si ridurrà di qualche punto il debito pubblico, forse, ma di sicuro s’innalzerà irrimediabilmente il debito naturale: per la propria intima vocazione, il mercato tende a consumare, sfruttare, non certo a custodire, salvaguardare.
Siamo in uno snodo cruciale della contemporaneità . Continuare a procedere lungo le ormai esauste magnifiche e progressive sorti, com’è ormai evidente e conclamato, rischia di compromettere definitivamente il nostro patrimonio. Diversamente, salvaguardare le risorse naturali, non per scarnificarle ma per valorizzare quanto contengono attraverso utilizzi più razionali e sostenibili, può essere l’occasione per modernizzare il modello di crescita economica. Un modello né pubblico né privato, né assistenziale né predatorio, che nutra e armonizzi sviluppo locale e programmazione nazionale, crei nuova occupazione, redistribuisca reddito.
Il nostro paese è ancora un grande patrimonio. La storia, la natura, la cultura, le nostre stesse intelligenze e sensibilità . È la risorsa più preziosa che abbiamo a disposizione, può diventare la migliore opportunità (forse l’unica) per allungare il nostro sguardo e allargare il nostro respiro.
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