LE MACERIE DI TANGENTOPOLI
Impongono con urgenza ancora maggiore quel profondo esame di coscienza che allora non facemmo, preferendo rimuovere le radici del disastro. Lasciammo così largamente inalterati, dietro una “rivoluzione” di superficie, i guasti che erano stati alla base di quel crollo e costruimmo inevitabilmente sulla sabbia, se non sulle sabbie mobili. Per questa via le macerie della “seconda Repubblica” si sono inevitabilmente aggiunte a quelle della “prima”: di entrambe dobbiamo oggi sgomberare il campo, e solo considerandole nel loro insieme possiamo individuare gli elementi necessari per una inversione di tendenza ancora possibile.
Ove si mettano a confronto gli anni Ottanta e il ventennio che ne è seguito viene quasi in mente il “tutto cambi perché nulla cambi” del Gattopardo e ancor di più una riflessione di Massimo d’Azeglio che viene spesso banalizzata e storpiata: “Hanno voluto fare un’Italia nuova – disse in realtà d’Azeglio – e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l’Italia, e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro”. Lo dimenticammo, nell’attesa di una salvifica “seconda Repubblica”, e venne di qui l’abbaglio di quegli anni: l’illusione che la corrosione avesse riguardato solo il ceto politico e non anche la società civile e il suo modo di essere. Come se le degenerazioni degli anni Ottanta, a partire dal crescente spregio per le regole collettive e per il bene comune, non avessero lasciato tracce profonde. Come non fosse proprio questo invece il terreno decisivo su cui costruire un’alternativa all’agonia della “prima Repubblica”. Leggemmo in modo semplificato e mitico l’entusiasmo che accompagnò il crollo del vecchio sistema dei partiti, senza saper cogliere i differenti umori che in esso si mescolavano: e nel marzo del 1994 l’inaspettato trionfo di Berlusconi ci impose un brusco e amaro risveglio. Avevamo mitizzato la “rivoluzione della gente” e rimanemmo poi disorientati e afoni di fronte al suo primo esito: quasi una favola alla rovescia, scrisse allora Barbara Spinelli, in cui il principe alla fine si rivela un rospo. Delusi dalle favole, non sapemmo poi crescere.
Non cogliemmo appieno neppure le radici lunghe di quel deformarsi della politica che era imploso nella crisi e che rinviava in realtà sino agli anni del fascismo, come suggeriva un denso e appassionato libro di Luciano Cafagna, La grande slavina. Gli anni cioè in cui si era diffusa per la prima volta in Italia una presenza invasiva della politica nella vita quotidiana dei cittadini e si era affermata al tempo stesso la mescolanza fra interesse del partito e interesse dello Stato, l’appartenenza partitica come garanzia di privilegio e la politica come mestiere. Rimuovemmo anche questi nodi, e provocò allora scandalo Giuliano Amato quando li evocò nel burrascoso aprile del 1993, rassegnando le sue dimissioni da presidente del Consiglio.
Non riflettemmo a fondo, infine, né sul carattere tragico di quella crisi né sulle conseguenze di un mutamento radicale che era avvenuto principalmente per via giudiziaria, senza una contemporanea rifondazione e rigenerazione collettiva. E sull’inevitabile riproporsi, dunque, di quelle deformazioni dell’etica privata e pubblica che negli anni Ottanta si erano largamente diffuse e avevano improntato di sé larghi tratti del nostro vivere. Deformazioni che trovarono sbocco naturale in quella “liberazione dallo Stato” – e dalla coscienza civile, e dalle priorità del bene pubblico – che era il vero “miracolo” promesso da Silvio Berlusconi. Intriso di populismo e di antipolitica, di sprezzo per la Carta fondante della Repubblica e di estraneità alle regole essenziali della democrazia.
Fu una vera tragedia, in quella crisi, l’assenza di un’alternativa basata su proposte solide e convincenti di buona politica: una sinistra che aveva visto crollare i suoi tradizionali fondamenti ideologici ben prima del 1989 si dimostrò incapace di ricostruire se stessa su questo elementare e fondamentale terreno. Più esposta di prima, semmai, a pratiche distorsive e sempre meno capace di grandi slanci ideali. Sempre più inaridita.
Inevitabilmente dunque al vecchio panorama della politica subentrò un suo sconfortante simulacro, un “sistema dei partiti senza partiti” che ne ereditava i guasti e altri ne aggiungeva. E frenava al tempo stesso i tentativi di battere altre, più trasparenti e democratiche vie.
La corruzione stessa si ripropose e dilagò di nuovo, con un definirsi e costituirsi delle cricche che nell’agire – e talora nei nomi – rimandava ai peggiori cancri della “prima Repubblica”, a partire dalla P2. Eppure molto a lungo essa ci era parsa scomparsa o quasi, almeno nei suoi aspetti più devastanti e corposi, e fu un brusco risveglio accorgerci, pochi anni fa, che così non era. Roberto Saviano parlò allora di “corruzione inconsapevole”, segnalando un nuovo salto di qualità rispetto alla “corruzione ambientale” tratteggiata vent’anni prima dal giudice Di Pietro: a qualcuno parve esagerazione di scrittore ma si rivelò fondatissima descrizione della realtà .
Siamo arrivati così a un nuovo crollo e a una nuova dichiarazione di fallimento della politica, incapace di tenere il campo quando il Paese si è trovato ancora sull’orlo di un baratro. Lascia oggi sconfortati, se non sgomenti, la distanza fra l’urgenza assoluta di una ricostruzione radicale e la scarsa consapevolezza che sembrano averne i partiti. Capaci di ignorare persino l’inabissarsi della loro credibilità , esattamente come vent’anni fa. Eppure il Paese è sì logorato, disorientato, profondamente preoccupato ed esposto alle tentazioni dell’antipolitica ma ancora percorso da energie vitali, da ansie di rinnovamento. Se andassero ancora deluse sarebbe davvero l’ultimo dramma.
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