Le confessioni a luci rosse della stagista di Jfk

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Neppure le nonne risparmiamo il fantasma di Jfk e dal letto bollente dei “mille giorni”, e delle mille notti, di Kennedy, si alza una implacabile settantenne con la memoria troppo lunga. Quando speravamo di sapere tutto di lui, e di averne avuto francamente abbastanza, esce dal passato una signora che fa sembrare la Monica Lewinsky di Clinton come una ritrosa Maria Goretti. Le memorie di Mimi Alford, già  stagista nell’ufficio stampa di Jfk, annunciate da due anni e ora uscite, raccontano di una lunga e inedita relazione, con momenti di tenerezza, lacrime, seduzione alternati a quadretti da pornografia per guardoni solitari. Ma sempre sottesi dal leit motiv, dal filo conduttore del rapporto fra John F. Kennedy e le donne, considerate e usate come attrezzi ginnici per il relax proprio, dei fratelli e dei collaboratori.
Mimi Alford oggi è una nonna di 69 anni, in pensione dopo avere lavorato per anni come amministratrice in una parrocchia di New York, forse per penitenza. Spiega di avere taciuto per mezzo secolo per non imbarazzare personaggi ancora vivi e, si potrebbe aggiungere maliziosamente, anche per non essere smentita, essendo gli uomini che lei “serviva”, da Jfk al fratello Ted a David Powers grande amico del presidente, ormai tutti morti. Ma nel 1963, quando lei era entrata nell’ufficio stampa guidato da Pierre Salinger (morto anche lui) neppure ventenne, Mimi era il prototipo della brava ragazza di buona famiglia, prodotto dalla stessa scuola per signorine bene già  frequentata da Jacqueline Bouvier Kennedy, fotografata sempre con l’indispensabile golfino giro collo e filo di perle.
Ricorda, in queste sue memorie con un titolo da fiaba “C’era una volta un segreto” (che memoria lunga hai nonnina) la sera in cui “Mister President” la invitò a visitare la camera da letto presidenziale, assente la First Lady. La sorprese alle spalle, la spogliò con «delicatezza», almeno questo, cominciò a frugarla dappertutto, lei impietrita e lusingata, e poi la sdraiò sul talamo coniugale, senza neppure togliersi la camicia o la cravatta. Il suo solo pensiero sul taxi che la riportava a casa dopo, non era «oddio, ho fatto sesso con il Presidente degli Stati Uniti». Ma «oddio, non sono più vergine».
Non ci fu mai violenza fisica, né brutalità , nei ripetuti incontri che la nonnina ricostruisce con una succosa abbondanza di dettagli, ammesso che, come fu nel caso di Monica e Bill, possa essere considerata davvero «consensuale» la seduzione dell’uomo più potente del mondo verso una adolescente stagista. Mimi doveva essere sempre a disposizione, sia del Comandante in Capo che dei suoi amici o consaguinei. Le chiedeva di «fare un servizietto» a loro, come si chiederebbe a un meccanico di fiducia di cambiare l’olio all’automobile. «Nuotavamo insieme nella piscina della Casa Bianca – ricorda – dove Jfk doveva fare molte vasche per la sua schiena e Powers era seduto sul bordo coi calzoni arrotolati sulle caviglie e i piedi nell’acqua. Lo vedo un po’ teso, Mimi, mi disse ridendo il Presidente, perché non lo aiuti a scaricarsi». Lei acconsentì. Il Presidente rimase a godersi lo squallore del quadretto.
Per quanto numerosi siano stati gli incontri fra Jack, come Kennedy era chiamato in casa, e Mimi, la distanza fra una ragazza di diciannove anni e un Presidente non poteva mai essere cancellata neppure dalla intimità  fisica. Lo chiamava sempre Mr. President, anche con le brache calate, e lui rifiutò sempre di baciarla sulla bocca, considerando quel gesto come una barriera invalicabile ed eccessiva fra il sesso e l’amore. «Non mi ero mai illusa che la nostra relazione potesse andare oltre quei rapporti» dice mezzo secolo più tardi la nonna che poi sposò un compagno di università  ignaro di averla condivisa con tanto rivale. «Ma il pensiero che quell’uomo potentissimo e bellissimo mi trovasse attraente, mi bastava».
Non sospettava che Kennedy trovasse attraenti quasi tutte le donne che respirassero, ma dai quadretti porno a tre o di gruppo, nei party organizzati con gli amici di Las Vegas dove circolavano i poppers, le pillole vasodilatatrici di amile nitrito antenate del Viagra, ascoltando le canzoni di Frank Sinatra suonate a palla, lei e Jfk sapevano passare anche a momenti di intimità  umana, non soltanto sessuale. La notte del 9 agosto 1963, quando morì dopo poche ore vita l’ultimo figlio, Patrick Bouvier, Mimi e il Presidente erano da soli sul terrazzo della Casa Bianca, mentre la moglie era ancora in ospedale. Rimasero a lungo accanto a «una montagna di messaggi di condoglianze» che Kennedy sfogliava e gettava, «mentre le lacrime gli scendevano sul viso». Si confidò con lei, nelle ore angosciose del possibile scontro nucleare con l’Urss sopra i missili piazzati a Cuba, confessandole di essere pronto a qualsiasi compromesso, mentre faceva il duro con Krusciov in pubblico, «perché preferisco che i miei figli siano rossi piuttosto che morti», better red than dead.
E quando lei, consumati i sei mesi di stage previsti tornò all’Università , lui continuò a telefonarle, con lo pseudonimo pre concordato di “Michael Carter” per chiederle come andassero gli studi, se si trovasse bene, e, in stile “telefono rosso”, che cosa facesse nella sua cameretta con la altre studentesse. La volle vedere ancora nel novembre del 1963. La mandò a prendere dal Massachusetts con un’auto e poi con un aereo privato. «Tra pochi giorni vado a Dallas» le confidò annoiato. «Quando torno, ti chiamo e ci rivediamo». Non si sarebbero più rivisti, se non nella pagine di queste «memorie di una nonna» che ha svelato tutto quello che lei fece con il Presidente. O che avrebbe voluto fare. Anche le nonne hanno fantasie.


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