L’Occidente davanti ai massacri di Damasco

by Editore | 10 Febbraio 2012 13:03

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Quello che noi – le persone, l’opinione pubblica – potremmo fare, si proporrebbe di esercitare un’influenza sulle scelte di governanti e responsabili internazionali. Di chi può decidere. Ma intanto bisogna constatare qualcosa che viene prima di quelle domande: che noi, persone, opinione pubblica, non stiamo facendo pressoché niente di fronte al massacro siriano. Qualche iniziativa “pacifista” – raccolte di firme, cose così – vede all’opera in Siria un disegno di provocazione “imperialista”, rifiuta di riconoscere una responsabilità  del regime, rivendica una “neutralità ” internazionale, vuole sventare una “guerra contro la Siria”, come se esistesse oggi “una” Siria. Per il resto, pigrizia e distrazione regnano. Naturalmente, “noi” non siamo mai adeguati alle violenze che si compiono sulla terra, e c’è una buona dose di retorica nel denunciare volta per volta questa inadeguatezza di fronte a iniquità  e guerre milionarie. Tuttavia deve esistere un metro per le nostre reazioni. In Siria si ammazza all’ingrosso, e si gioca la partita decisiva di quel sommovimento inaspettato e imprevedibile che ha sconvolto il mondo arabo. Il campo delle ipotesi sembra di nuovo stringersi all’alternativa fra un’azione militare internazionale o no. Il precedente della Libia non è incoraggiante, la preoccupazione su un esito che metta in sella correnti fondamentaliste e comunque intolleranti è forte. Soprattutto, si ripete che la Siria non è la Libia, e si vuol dire che dopotutto, petrolio compreso, la Libia era periferia, e la Siria è al centro di un groviglio geopolitico e militare tale da rendere pressoché inevitabile ed esplosivo il contagio di un intervento internazionale. Gli attori di primo piano di questo groviglio sono Israele e l’Iran. Ogni mossa sulla scacchiera siriana richiama quel confronto. Nel 2007 si compì, pressoché in sordina, un’azione israeliana contro un sito nucleare siriano. Ben altra portata ha oggi lo scontro sul nucleare iraniano. 
La Siria ne è una pedina minore, ed è di fatto ricattatrice e ostaggio della sua collocazione internazionale. La dinastia degli Assad se ne è servita per perpetuarsi (dal 1970, “fino all’eternità  e oltre l’eternità “, come una Nord-Corea) e per perpetuare la farsa di uno “stato di emergenza” proclamato nel 1963! È grazie a questo domino che Bashar el-Assad procede a oltranza nella guerra guerreggiata contro la gran parte del “suo” popolo, benché abbia davanti agli occhi la sorte di colleghi come Mubarak o, soprattutto, Gheddafi. Se ne fa forte: “Toccate la Siria, e infiammerete l’intero Vicino Oriente”. Ha dalla sua la Russia e la Cina. La Russia, per un cinico calcolo di tattica – è l’unico puntello rimasto alla sua influenza regionale, oltre che un grosso cliente alle sue vendite d’armi; la Cina per un principio strategico – mostrarsi estranea a ogni ingerenza negli altri Stati, e farci affari d’oro. E ambedue, Cina e Russia, per una gran paura che le primavere a casa d’altri vogliano prima o poi soffiare anche in casa loro. Il veto di Russia e Cina a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che si era ridotta a una mera raccomandazione senza corollari pratici, discende soprattutto da questa paura, e intanto agisce come un’autorizzazione alla brutalità  della repressione. Durante la visita del ministro degli Esteri russo Lavrov a Damasco il cannoneggiamento di Homs è spettacolarmente cresciuto. 
Lo slogan della “primavera” si inaugurò a Damasco nel 1999-2000 al passaggio da Assad padre al figlio, giovane, “moderno”, addottorato in medicina a Londra. Non bastava, come la London School of Economics di Saif Gheddafi. Prima o poi le nostre università  d’eccellenza dovranno porsi il problema. Quando la primavera araba tornò, a cominciare dalla Tunisia, Bashar el-Assad proclamò che in Siria non poteva succedere: “Il mio popolo non si ribella”. Poi dei ragazzi di Deraa graffiarono un po’ di muri, e successe. Dopo di allora sono venute le migliaia di morti, soprattutto civili, e centinaia bambini, le decine di migliaia di profughi, le città  bombardate e il “suo popolo” insultato come “terrorista”. Amnesty International ha già  raccolto “più di 5.400 nomi di vittime”. La ribellione è rimasta non violenta molto a lungo, prima della defezione di militari male armati, che si chiamano ora “Libero esercito siriano”. Ogni giorno a Homs, una città  di 800 mila abitanti, l’artiglieria di carri armati e mortai si misura con i kalashnikov dei disertori. 
In Siria si compiono da undici mesi crimini contro l’umanità , che la comunità  internazionale non sa sventare né arginare. Vengono bombardati ospedali, torturati prigionieri, massacrati civili. Esiste un Tribunale penale internazionale, costituito per procedere in giustizia contro crimini come questi. Le persone, le associazioni, l’opinione pubblica, hanno il diritto di rivendicarne l’iniziativa. 
I governi e i responsabili internazionali, dalla Lega araba alle Nazioni Unite, possono formulare piani per un ricambio nel potere siriano, studiare soluzioni che, come l’esilio del despota di Damasco, mettano fine alle violenze ed evitino la guerra civile. E’ la scelta che non si perseguì abbastanza – e forse non si volle perseguire – con Saddam, né con Gheddafi. Si è attuata, dopo troppo sangue, nello Yemen. È tipico dei tiranni non voler credere alla propria rovina nemmeno quando si è già  consumata, e tuttavia è importante far loro sentire lo sdegno delle persone nel resto del mondo, e far sentire la solidarietà  con il coraggio delle loro vittime. Da noi, intanto, che dimentichiamo troppo disinvoltamente il nostro amore per la pace quando la violenza soverchiante di un “sovrano nazionale” si rovescia contro il suo stesso popolo. E in paesi che le prestano una complicità  speciale, come la Russia, nella quale una nuova opposizione civile ricca di speranze deve mostrare di non essere prigioniera di un pregiudizio nazionalistico. All’indomani dell’abietto veto al Consiglio di Sicurezza, Putin – quello che giurava di snidare i ceceni “fin dentro il cesso” – ha delicatamente rimproverato alla diplomazia internazionale di muoversi in Siria “come un elefante in una cristalleria”. Il cinismo politico delle potenze pensa di poter ignorare i sentimenti della propria gente e del resto del mondo. Alla vigilia del malaugurato intervento in Iraq ci fu una memorabile sollevazione dell’opinione pubblica mondiale, lusingata come una nuova specie di grande potenza. Gridò forte contro la guerra, ma ebbe la debolezza di non gridare altrettanto forte contro la tirannide di Saddam. Che se ne rafforzò nell’inganno di non poter essere attaccato, e di uscire vittorioso da un attacco. Oggi bisogna risalire una doppia corrente: rimettere in campo quella forza d’opinione e di sentimenti, e avvertire il nuovo pazzo di Damasco che la sua ora è suonata.

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