L’America ha paura del declino Ma il primato non è un fatto militare

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Gli inglesi avevano smesso di credere nel loro stesso impero. Avevano perso la volontà  di continuare a portare il fardello dell’uomo bianco. Non se la sentivano più di combattere «le selvagge guerre della pace», per citare le celebri parole di Rudyard Kipling.
In realtà  Kipling, nel poema che esorta la razza bianca a diffondere i suoi valori tra la «torma dei selvaggi riottosi, da poco assoggettati, metà  demoni e metà  bambini», non si riferiva affatto all’Impero britannico, bensì agli Stati Uniti. Venne pubblicato appena prima che l’America dichiarasse la sua «guerra della pace» nelle Filippine.
Chaudhuri ha fatto un’osservazione pertinente. È difficile infatti mantenere in piedi un impero se manca la volontà  di farlo, se non si è pronti a ricorrere anche all’uso della forza in caso di necessità . Tanta retorica politica e una nuova pletora di libri sull’argomento vorrebbero farci credere che gli Stati Uniti in questo momento sono trascinati da una pericolosa deriva improntata a un senso di sconforto e d’impotenza. E difatti Mitt Romney non perde occasione per fustigare il presidente Obama, accusandolo di voler quasi «scusarsi per la potenza internazionale dell’America», di aver osato insinuare che gli Stati Uniti non sono più «la più grande nazione della terra», e di mostrarsi «pessimista». Mentre lui, Romney, si propone di «ridar lustro» alla grandezza e alla potenza internazionale dell’America. A tale scopo promette di rafforzare la potenza militare del Paese. 
Il Kipling di Romney è incarnato invece dall’intellettuale neoconservatore Robert Kagan, il quale, nel suo libro fresco di stampa, intitolato Il mondo costruito dall’America, respinge con forza «il mito del declino americano». È vero, ammette Kagan, che la potenza della Cina è in ascesa, ma l’egemonia statunitense nel mondo resta una realtà  indiscutibile. La potenza militare americana è sempre in grado di sbaragliare facilmente qualunque avversario. L’unica vera minaccia al potere internazionale dell’America è il «declinismo», ovvero la perdita di fiducia in se stessi, la tentazione di «sottrarsi agli impegni morali e materiali che pesano sulle spalle dell’America dalla fine della Seconda guerra mondiale in avanti». In altre parole, lo scoraggiamento e la rinuncia.
Come Nirad Chaudhuri, anche Kagan è un analista convincente. Le sue argomentazioni appaiono ragionevoli e la sua valutazione della potenza di fuoco dell’esercito americano è indubbiamente corretta, anche se preferisce glissare su problemi interni come infrastrutture fatiscenti, una scuola pubblica scadente, un sistema sanitario spaventoso e un divario grottesco tra le fasce sociali nella distribuzione della ricchezza. Peraltro Kagan ha certamente ragione nell’osservare che nessuna nuova potenza è finora emersa a voler contendere all’America il ruolo tradizionale di gendarme del mondo.
Ciò che potrebbe invece essere messo in dubbio è il presupposto che l’ordine mondiale rischia di disintegrarsi se venisse meno la «leadership americana». Questa è l’illusione di tutte le grandi potenze. Nel momento stesso in cui gli inglesi stavano per smantellare il loro impero, sul finire degli anni Quaranta, i francesi e gli olandesi erano ancora convinti che la restituzione dei loro possedimenti asiatici sarebbe risultata nel caos. La democrazia sì, certo, ma il popolo non è ancora pronto: è questo il ritornello che si sente ripetere da autocrati e dittatori che hanno ereditato i vari tronconi di quegli antichi imperi occidentali. È una convinzione, questa, che si accompagna solitamente all’usurpazione del potere: coloro che lo monopolizzano sono convinti che il mondo, una volta liberato dai loro artigli, precipiterebbe inevitabilmente nel baratro.
La Pax americana, garantita dalla potenza militare degli Stati Uniti, si instaurò nel secondo dopoguerra. In Europa, il suo compito era quello di «tener fuori i russi, e tener sottomessa la Germania». In Asia, essa mirava ad arginare il comunismo, mentre consentiva agli alleati, dal Giappone all’Indonesia, di sviluppare le loro economie. Lo scopo principale non era la diffusione della democrazia, bensì la lotta al comunismo, in Asia, in Europa, in Africa, in Medio Oriente e nelle Americhe. E la strategia, nonostante i pesantissimi costi umani, si rivelò vincente.
Ma oggi che lo spettro della dominazione mondiale del comunismo è finito, assieme a tante altre paure, nella grande pattumiera della storia, per molti Paesi è senz’altro giunto il momento di badare da soli ai propri affari. Il Giappone, in alleanza con altre democrazie asiatiche, dovrebbe essere in grado di contrastare la potenza emergente della Cina. Gli Europei si trovano ad affrontare oggi molte sfide, ma nessuna di queste richiede l’intervento urgente della forza militare americana. Inoltre, tutti questi Paesi hanno raggiunto negli ultimi decenni un livello di ricchezza economica tale che consente loro di tutelare da soli la propria sicurezza.
Eppure, né il Giappone, né l’Unione europea sembrano pronti a fare la loro parte. Alla base di tale atteggiamento si riscontrano diverse motivazioni. In primis, un’eccessiva dipendenza dalla sicurezza americana. Fintanto che lo Zio Sam continua a pattugliare il pianeta, i suoi figli non raggiungeranno mai la maggiore età .
E ad ogni modo, come abbiamo visto in Iraq e in Afghanistan, «le selvagge guerre della pace» non sono sempre il modo più efficace per gestire la politica estera. Il dominio militare vecchia maniera non è più nemmeno in grado di promuovere gli interessi americani. I cinesi espandono progressivamente la loro influenza in Africa non con le squadriglie di bombardieri, bensì con il denaro. Il sostegno offerto ai dittatori laici in Medio Oriente, con la fornitura di armamenti americani, ha stimolato la nascita dell’estremismo islamico, che non potrà  essere arginato neppure con l’invio di nuovi droni.
L’idea propugnata da Mitt Romney e dai suoi sostenitori, che solo l’espansione della potenza militare americana potrà  salvare l’ordine mondiale dal collasso, è in realtà  una nozione profondamente reazionaria, il sogno di tornare a un’epoca in cui gran parte del pianeta riemergeva a fatica da una devastante guerra mondiale e viveva nel terrore del comunismo. L’aver riconosciuto i limiti dell’America, come ha fatto il presidente Obama, non è segno di pessimismo codardo, ma di saggezza realistica. La relativa cautela mostrata nel trattare con il Medio Oriente è stata un fattore decisivo nel convincere quei popoli ad agire di propria iniziativa. Anche se ignoriamo ancora quali saranno i risultati finali, oggi sappiamo con certezza che «la più grande nazione della terra» non è in grado di imporre una soluzione. Né può arrogarsi il diritto di farlo.
Traduzione di Rita Baldassarre


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