L’armatore al telefono ordinò: “Tornate a Kochi” i due “marò” costretti con le armi a sbarcare

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«Fate come vi dicono, tornate a Kochi». Fu l’armatore napoletano Fratelli D’Amato, in una telefonata alle 19,15 di mercoledì scorso, a spedire la petroliera Enrica Lexie nelle mani della magistratura indiana, abboccando al tranello teso dalla guardia costiera. Assecondare la richiesta di un mercato dei noli prosperoso come quello indiano si è rivelata una mossa drammaticamente sbagliata. 
La partita è già  compromessa, ma lo scacco al re arriverà  solo tre giorni dopo. «Erano in sedici: armati e molto, molto nervosi». Hanno chiesto, hanno ordinato, ora minacciano mostrando le pistole. È il primo pomeriggio di sabato 18: per tre giorni gli italiani sulla Enrica Lexie e quelli che decidono le strategie a Roma e nel consolato italiano hanno tentato l’impossibile per evitare che i marò debbano scendere dalla nave, ma ora è chiaro che il braccio di ferro è arrivato al dunque. Ai sei fucilieri del Battaglione San Marco restano solo due opzioni: «Reagire o arrendersi» agli uomini della guardia costiera e agli agenti della polizia. E scelgono la seconda. 
Il termometro segna 38 gradi, caldo torrido. Ma è il barometro diplomatico a marcare una temperatura anomala tra Italia e India, precipitando in crisi conclamata senza che la Farnesina riesca più a far nulla per evitarlo. Sono trascorsi esattamente tre giorni da quando la Enrica Lexie è stata attaccata dai pirati e li ha respinti a fucilate sparate «in mare, per avvertimento». Valentine Jalastine e Ajeesh Pinku, i pescatori di tonni uccisi sul peschereccio St.Antony rientrato nel porto di Kochi «con decine di fori nello scafo» – come raccontano gli indiani senza mai mostrarlo – sono già  stati seppelliti da 24ore con rito cristiano, senza neppure un’autopsia. Di rilievi balistici non si sa e non si saprà  nulla.
Minuto per minuto, ora per ora, è dalle 15,45 di mercoledì che il dramma umano e diplomatico prende forma. Inizia, quando i radar della Enrica Lexie tracciano un bersaglio in avvicinamento, e danno l’allarme a bordo. Il comandante Umberto Vitelli manda i suoi 23 uomini di equipaggio – 5 italiani e 19 indiani – nella “cittadella” protetta, e si chiude dentro con loro. L’attacco, qualunque cosa sia successo, finisce in un’ora e 15 minuti tra avvicinamento, respingimento e messa in sicurezza. Alle 17 è tutto finito, ma la cittadella della petroliera ha già  avvisato l’armatore. 
Alle 16.30 il comandante telefona al responsabile dell’unità  di crisi della Fratelli d’Amato: «Ci hanno attaccato i pirati». E l’armatore gira immediatamente l’allarme al Comando generale della Capitaneria di porto di Roma, facendo partire la procedura di avvertimento alle autorità  militari, al governo e alla magistratura. La procura di Roma viene informata alle 19,30. 
Episodio chiuso, sperano gli italiani. Invece alle 19 arriva una telefonata a bordo dal Mrcc di Mumbai, il servizio ufficiale di Controllo e sicurezza in mare: comunicano alla nave che hanno preso due barche di pirati – proprio il numero di barche che lo stesso giorno ha attaccato la nave greca Olympic Flair – chiedendo di rientrare a Kochi per aiutarli a riconoscere i pirati. È un tranello, teso dopo che la Enrica Lexie ha risposto affermativamente alla domanda se abbiano subito un attacco. Ci sono altre tre navi identiche in quelle miglia di mare, ma la petroliera italiana è l’unica ad aver detto sì.
È a quel punto che parte una nuova telefonata tra il comandante e l’ufficiale di turno nell’unità  di crisi dell’armatore. E arriva l’ordine decisivo: «Ok, fate come vi dicono, tornate a Kochi». Alle 19,15 la nave ha già  virato. Alle 22, quando Kochi è ormai in vista, l’armatore richiama la nave: «Ho guardato su Internet, in India dicono sono morti due pescatori uccisi per errore». La nave, scortata da due barche della guardia costiera, arriva a Kochi alle 23 e getta l’ancora alla fonda, in rada.
Gli indiani si fanno vedere il giorno dopo: alle 10,30 sale a bordo una delegazione di dieci persone tra guardia costiera e polizia. Fanno domande, pretendono deposizioni. Mostrano le foto del peschereccio e dalla Enrica Lexie restano a bocca aperta: sicuri che sia quello? Loro ricordano una barca blu, quello che gli mostrano è bianco. La foto che hanno inviato a Roma via internet è a bassa risoluzione, non si vede nulla. Per quello la procura italiana mette sotto sequestro la macchina fotografica, sperando che foto più dettagliate chiariscano l’equivoco. 
Gli agenti indiani mostrano una lettera del loro governo che contesta i fatti, accusano i marò di omicidio. Chiedono alla nave di spostarsi, portandosi in banchina. La situazione ormai è tesissima. Gli italiani aspettano l’arrivo del console: sono le 18 quando sale a bordo. «Ormai è tardi», dice agli indiani proponendo di aggiornare tutto alla mattina successiva. Prende tempo. Da Roma, intanto, la macchina diplomatica è in moto. Ma gli indiani non ci stanno. Alle 21 la guardia costiera minaccia: «Andate in banchina o metteremo in atto azioni coercitive». Dalla nave consultano l’ambasciata e arriva l’ok: si va in banchina.
Siamo già  a sabato mattina. Alle 9.30 il nostro addetto alla Difesa e il console comunicano alla nave che le autorità  indiane vogliono che scendano a terra per accertamenti in base alla legge indiana. È una giornata convulsa di trattative tra Roma, New Delhi, la nave e le autorità  locali. Il braccio di ferro dura tutto il giorno. Nel primo pomeriggio i poliziotti decidono che è ora di dire basta. E mettono la mano sulla fondina. Ora l’Italia punta tutto sul sottosegretario agli Esteri, Staffan De Mistura.


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