by Editore | 8 Febbraio 2012 10:30
Secondo il rapporto annuale sull’economia dei distretti del Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo sono almeno mille le aziende che provengono dalle zone a industrializzazione diffusa e che possiedono proprie partecipate fuori dai confini patrii. In diversi casi ne possiedono più d’una, visto che ogni cento imprese dei distretti ce ne sono in totale 25 dislocate in Paesi stranieri. «Mentre dieci anni fa erano solo le grandi imprese italiane della taglia della Fiat a poter vantare controllate all’estero ora anche i piccoli e medi hanno passato il Rubicone dell’investimento diretto» commenta l’economista Fabrizio Guelpa.
Ma i blitz dei Piccoli oltrefrontiera, la delocalizzazione diffusa, danneggiano la crescita e l’occupazione delle imprese in Italia? La risposta dei ricercatori per ora è no, in base ai dati che si hanno i distretti non delocalizzano perché puntano ad abbassare drasticamente i costi del lavoro (come fanno quasi sempre i grandi), vanno invece all’estero per seguire i mercati e imparare in loco. «Per quello che ne sappiamo, in questa fase sono tutti investimenti aggiuntivi e non sostitutivi» e del resto, per i profondi legami che ha con il territorio, sarebbe molto più difficile per un’azienda distrettuale chiudere in Italia e aprire il giorno dopo in uno dei Paesi terzi. Come pure hanno fatto fior di aziende come Bialetti, Datalogic, Candy e come minacciano di fare i big degli elettrodomestici bianchi che guardano alla Polonia come terra promessa del frigorifero e della lavatrice.
Il primato dell’internazionalizzazione spetta al distretto bolognese delle macchine di imballaggio che conta diverse aziende che primeggiano per investimenti diretti all’estero. I nomi sono quelli della Sacmi, della Gd, della Ima e di Marchesini Group. Grazie anche a questi investimenti la Cina è diventato il primo sbocco commerciale del distretto. Sempre nella meccanica merita una segnalazione il gruppo Santoni che rappresenta il distretto delle macchine tessili e per materie plastiche di Brescia. Nel legno-arredo spicca la brianzola Arturo Salice.
Se i distretti prendono la strada che porta all’estero non succede però il contrario. Il cerchio ancora non si chiude. La capacità di attrarre investimenti e aziende straniere è ancora troppo bassa. «I distretti restano a loro modo impermeabili» commenta Guelpa. Eppure una contaminazione culturale sarebbe estremamente interessante e potrebbe portare nei territori un rinnovamento e una discontinuità fatta di tecnologie, management e differente cultura del prodotto.
La riflessione del Servizio studi di IntesaSanpaolo serve a rilanciare il dibattito sul futuro dei territori industriali. L’economista Giacomo Becattini, considerato il decano degli economisti distrettuali, qualche settimana fa sulSole24Ore aveva usato toni polemici per richiamare l’attenzione del governo. E citando esplicitamente Corrado Passera aveva chiesto se i ministri considerassero l’industria dei distretti «un patetico strascico» dell’arretratezza del nostro apparato industriale o avessero finalmente capito che si tratta «di un punto vivo e vitale tra i più forti della società italiana». Risposte formali/pubbliche finora non se ne sono viste ma il ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca ha nel frattempo avviato una ricognizione sulle zone «a forte vitalità industriale» del Sud.
Alle considerazioni di Becattini c’è da aggiungere un’altra novità contenuta nell’indagine di IntesaSanpaolo che ha anche preso in esame 179 contratti di rete di impresa stipulati in Italia. A smentita di quanti avevano diagnosticato una contrapposizione tra i «vecchi» distretti e le più «giovani» reti, Guelpa sostiene che ci troviamo di fronte a una complementarietà di fatto. Le reti allungano i distretti verso altre province o addirittura regioni limitrofe e la finalità che guida le nuove collaborazioni è innanzitutto l’innovazione. Una volta ci si aggregava principalmente per commercializzare insieme i prodotti, ora lo si fa per cambiare registro.
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