La rivolta anti-Usa non si placa

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Sono valsi a poco, gli inviti alla calma del presidente Karzai. Mentre le pubbliche scuse del generale John Allen, capo delle truppe Nato in Afghanistan, del segretario alla difesa Usa Leon Panetta e dello stesso Barack Obama sembrano semmai aver alimentato ulteriormente la tensione. 
Da cinque giorni in ogni angolo del paese si alternano infatti manifestazioni violente contro la profanazione di alcune copie del Corano, trovate bruciate all’inizio della settimana nella base di Bagram, uno dei più importanti nodi logistici della guerra, dove ha sede anche la «Guantanamo afghana», il Parwan Detention Center, la prigione gestita dagli americani al cui interno sono rinchiusi senza accuse formali circa tremila detenuti, di cui a gennaio Karzai ha chiesto il passaggio di responsabilità , dando origine a un complicato braccio di ferro con Washington.
La dinamica dei fatti di Kabul non è chiara, ma l’episodio è stato confermato dal portavoce del ministro degli interni, Siddiq Siddiqi, e da quelli del comando Isaf-Nato. L’attacco, a due giorni dall’uccisione di altri due soldati Usa da parte di un militare afghano nella provincia di Nangarhar, è stato fortemente condannato dal generale Allen, che con una misura senza precedenti, esemplare delle forti preoccupazioni degli occidentali, ha immediatamente richiamato tutto il personale Isaf impiegato nei ministeri locali. Anche se per Carsten Jacobson, portavoce delle forze Isaf, non c’è alcuna prova del legame tra l’uccisione dei due americani e le proteste di questi giorni, sul sito ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan i Taleban si sono affrettati a rivendicare l’attacco. Parlano di quattro «americani invasori» (non due) uccisi dal «valoroso mujaheddin Abdur-Rahman» e dal suo aiutante, e ricordano uno degli appelli resi pubblici due giorni fa, in cui chiedevano agli afghani che lavorano per il «regime fantoccio» di Karzai di «riconoscere il vero nemico e puntare a tutti gli stranieri invasori nel paese». 
Ieri gli stranieri sono stati presi di mira anche al di fuori della capitale: nel nord del paese, a Kunduz, centinaia di manifestanti hanno assaltato e dato alle fiamme un compound di Unama, la missione delle Nazioni unite, prima di essere respinti dalla polizia locale. Nel corso degli scontri di Kunduz tra i manifestanti e la polizia, sono morte almeno quattro persone, altre tre invece nella provincia di Logar, mentre nel Laghman è finita sotto assedio la casa del governatore provinciale, Mohammad Iqbal Azizi, e altre manifestazioni si sono svolte nelle province di Sari Pul e Paktia.
Se l’Afghanistan continua a essere in fiamme, e le cancellerie occidentali si fanno sempre più preoccupate della diffusione capillare delle manifestazioni, che finora hanno portato a trenta morti circa, la diplomazia continua il suo corso. Ieri il premier pakistano Reza Gilani ha rilasciato una dichiarazione importante, sostenendo che «è ormai tempo di girare pagina e aprire un nuovo capitolo nella storia dell’Afghanistan», per poi appellarsi «alla leadership taleban così come agli altri gruppi afghani, incluso l’Hezb-e-Islami, per partecipare a un processo interno afghano per la riconciliazione nazionale e per la pace». Mentre gli analisti si chiedono se le parole di Gilani si tradurranno in azioni politiche conseguenti da parte di Islamabd, le piazze afghane continuano a bruciare.


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