by Editore | 7 Febbraio 2012 8:46
NEW YORK – La coincidenza sembra troppo perfetta: nove mesi esatti prima del voto, giusto il tempo per partorire una nuova presidenza. Oggi i democratici si scoprono a sognare a occhi aperti: la sera del 6 novembre, quando usciranno gli exit poll sull’elezione presidenziale, in retrospettiva la giornata di ieri potrà essere ricordata come uno spartiacque. L’inizio della rimonta. Perché è datato 6 febbraio il primo sondaggio che materializza le speranze di una svolta: uno scatto in avanti di Obama, uno scarto su Mitt Romney che non ha precedenti da quando è iniziata la campagna elettorale. Tutto merito della ripresa economica che finalmente si traduce in posti di lavoro, recita la spiegazione ufficiale della Casa Bianca. Poi c’è la versione ufficiosa, che trapela sempre dallo staff di Obama: i repubblicani stanno «facendo il lavoro sporco per noi», con una battaglia delle primarie che assomiglia al massacro di San Valentino. I numeri-chiave eccoli qui, tutti dall’autorevole indagine demoscopica effettuata per il quotidiano Washington Post e la tv Abc News. Per la prima volta da quando Romney ha annunciato ufficialmente la sua candidatura per la nomination repubblicana, il presidente gli infligge uno scarto di sei punti, il 51% degli elettori oggi voterebbe per un secondo mandato di Obama contro il 46% che manderebbe alla Casa Bianca l’ex governatore del Massachusetts.
Ancora peggio farebbe Newt Gingrich: se fosse lui ad affrontare il presidente in carica, il punteggio darebbe 54 a 43. Il sondaggio è stato effettuato in un periodo cruciale: subito dopo il discorso presidenziale sullo Stato dell’Unione, e la primaria della Florida. Quindi in un momento di alta visibilità delle posizioni politiche da ambo le parti. Il verdetto non è confortante per i repubblicani. Tra coloro che hanno sentito il discorso di Obama, il 57% lo approva. Al contrario, una maggioranza schiacciante di americani (il rapporto è due a uno) dicono «più conosco Romney meno mi piace». Su Gingrich, le opinioni negative sono maggioritarie in una proporzione di tre a uno. Che cosa sta succedendo? In parte è l’effetto del fuoco amico, i danni collaterali che la campagna delle primarie sta producendo tra i repubblicani. Inevitabile, ma solo fino a un certo punto. Di sicuro le primarie sono una gara ad eliminazione in cui vengono esaltate le differenze tra i candidati dello stesso partito, quindi in questo caso (non essendoci competizione in campo democratico) volano le accuse di una parte della destra contro l’altra parte. Però raramente come quest’anno si sente usare l’aggettivo «vicious» – malvagio, crudele, perverso – per descrivere la virulenza di certi attacchi. Romney che descrive Gingrich come un lobbista prezzolato nonché marito infedele e immorale. Gingrich che denuncia le poche tasse pagate dal multimilionario Romney, i suoi conti offshore alle Caimane, i profitti intascati quando era alla Bain Capital smembrando aziende e licenziando i dipendenti. Poi ci sono gli autogol, una specialità soprattutto per Romney. Per dileggiare le proposte più stravaganti di Gingrich («colonizzare la luna»), il rivale non trova di meglio che usare la celebre frase di Donald Trump: «Se uno mi porta una proposta così io ho una sola risposta. Sei licenziato!» In bocca all’ex finanziere Romney, che già si era lasciato sfuggire una frase su «quanto è bello licenziare chi non è efficiente», questo linguaggio accentua la distanza dalla sensibilità dell’americano medio. Obama invece comincia a raccogliere qualche frutto dalla ripresa economica: il calo della disoccupazione è l’indicatore più importante per le sue chance di rielezione.
Febbraio è uno strano mese per le primarie. Oggi si tengono nel Colorado, Minnesota, Missouri e Maine, ma i delegati in palio sono pochi rispetto alla soglia dei 1.143 che bisogna raggiungere per qualificarsi. Nel febbraio 2008 Obama approfittò di questa quasi-tregua per lo storico viaggio a Berlino, il suo primo grande discorso di politica estera davanti al resto del mondo. Romney invece è costretto a proteggere in casa il suo vantaggio. È il favorito, e l’establishment repubblicano vorrebbe chiudere la partita in fretta. Ma Gingrich aspetta il “supermartedì” del 6 marzo perché si tornerà a votare al Sud, dove lui è più forte. Dunque il gioco al massacro non è affatto finito.
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