by Editore | 9 Febbraio 2012 10:41
WASHINGTON – È la versione politica moderna di un classico mito popolare, San Giorgio e il Drago, Davide e Golia, Robin Hood contro l’esoso Sceriffo, questa battaglia del piccolo senatore italo americano Santorum contro il colosso della casta repubblicana Romney. La resurrezione di Ricky il chierichetto l’italiano schiacciante vincitore di un filotto di tre stati, Colorado, Minnesota e Missouri, a danno del miliardario mormone designato dall’establishment di soldi e politica, Mitt Romney è il prezzo che il potere paga alla democrazia e che i mandarini dei partiti pagano alle primarie. Ma soprattutto è una nuova conferma di un fatto ormai chiarissimo e che sta rallegrando le giornate del futuro avversario nel duello che conta, per la Casa Bianca, di Barack Obama: gli elettori repubblicani, chiamiamoli pure la Destra per comodità d’approssimazione, non vogliono saperne di quel campione che a tutti i costi, e grande costo, il partito vorrebbe fargli ingoiare come alle oche da ingrasso.
Il ritorno prepotente del cinquantaquattrenne nipote tutto parrocchia, casa e patria di un minatore italiano emigrato da Riva del Garda alla Pennsylvania dopo che era stato dato per sepolto sotto la potenza finanziaria del milionario Romney era atteso in parte. Ma non era prevista la misura devastante della disfatta che le percentuali di questi tre stati importantissimi indicano. In Colorado, la terra delle miniere, e in Minnesota, la grande e gelida anticamera del Far West dove i ribelli antistato del Tea Party sono potenti, la presenza di forti comunità di evangelici, di cristiani ferventi e fondamentalisti, garantiva al superchierichetto dal nome fatale, Santorum, un buon risultato. E la formula del caucus, la stessa che già lo aveva fatto vincere nell’Iowa, dove i cittadini si riuniscono in assemblee spontanee per ascoltare, discutere e indicare un nome, favoriva il piccolo senatore senza grande organizzazioni e ancor meno soldi, rispetto all’ex governatore e alla sua macchina da guerra costruita sui seggi tradizionali e sul voto segreto. Ma il distacco in doppia cifra che ha inflitto ovunque all’avversario, anche in quello stato del Missouri meno sensibile al pulpito e alla Bibbia, non è una vittoria, è un grido di ribellione, un “pronunciamento” della base contro Romney.
Il risultato, mentre la campagna elettorale per scegliere l’avversario di Obama in novembre entra in un cono d’ombra che sarà squarciato soltanto in marzo da un super martedì con voti in 18 Stati, è di avere riportato la destra repubblicana esattamente al punto dal quale era partita un mese fa, all’inizio di gennaio. Nella confusione più completa. Tutti convengono sul fatto che alla fine Romney, l’uomo per tutte le (mezze) stagioni, puntellato dal concistoro di tutti i cardinali della destra e dal più detestato clown del business spettacolo, Donald Trump, riuscirà a raggiungere quel numero di 1.144 delegati necessari per essere nominati al Congresso di agosto, in Florida. Perché questo è lo scopo del gioco: tradurre i voti in delegati e tagliare il traguardo dei 1.144.
È la questione politica che la matematica congressuale e le strategie costruite sugli spot televisivi nei quali Romney è sovrano, a farsi sempre più spinosa. In tutti gli Stati dove finora si sono svolte le primarie, la maggioranza degli iscritti alle liste repubblicane che si sono dati la pena di votare hanno dato una sola risposta certa: vorrebbero chiunque altro, ma non Romney. L’ex governatore del Massachusetts non ha mai ottenuto la maggioranza assoluta dei propri, teorici “compagni” di partito. Mentre ovunque un numero sostanzioso di persone, addirittura fra coloro pure lo hanno votato, ripetono che preferirebbero «chiunque altro».
Semplicemente, Romney non riesce a toccare il cuore, né a far vibrare la pancia di un popolo che due anni or sono annunciò la propria pacifica insurrezione contro la politica politicante, nel Tea Party, e ora dovrebbe sposare una perfetta espressione proprio di quel mondo di finanzieri e di camaleonti politici contro il quale insorse. È una lacerazione che sta dilaniando un elettorato, e dunque un partito, che ancora la scorsa estate era convinto di avere già vinto la Casa Bianca e oggi guarda con occhi sbarrati l’economia lentamente migliorare, il gradimento di Obama crescere e il detestato presidente afroamericano, “comunista”, “eurostatalista”, sorridere con aria rilassata mentre i repubblicani si sbranano.
Ma precisamente a questo servono le elezioni primarie, a portare alla prova dei simpatizzanti, dei cittadini, le scelte fatte dai cardinali dei partiti. È un’espressione di quella democrazia tanto esaltata nelle parole, e poi tanto temuta nei fatti, che può produrre un vincente con il vento del popolo nelle vele, come fu per Obama, o spingere vascelli pirata in battaglie simboliche, sapendo che non le potranno vincere. Le primarie esaltano i candidati di nicchia, perché godono di un sostegno convinto e militante, tanto più importante quando più ridotto è il numero generale degli elettori.
Nel complesso delle elezioni svolte finora, con la sola eccezione della Carolina del Sud, i partecipanti al voto sono stati molto meno di quattro anni or sono, segno che gli stessi repubblicani non credono alle scelte che vengono offerte e che ogni risultato, su piccole quantità , è possibile. Santorum, con la sua aria da bravo ragazzo sincero e autentico, memore del celebre monito di Reagan («Se in politica sapete fingere di essere sinceri, ce l’avete fatta») piace perché il suo avversario dispiace, mentre gli altri, come Gingrich o il balzano dottor Paul, sfumano verso il nulla. Ma sarà colui che potrà battere Obama in novembre? È “eleggibile” o è soltanto lo scatto di nervi di un elettorato offeso dalla prepotenza dell’establishment che recalcitra di fronte a un matrimonio di interessi? Obama, da lontano, sorride. Il suo peggior nemico, dopo un mese di zuffe repubblicane, è la presunzione di avere già vinto.
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