by Editore | 7 Febbraio 2012 8:26
Agostino Miozzo, già braccio destro di Bertolaso, si è spinto a dire che con i controlli a priori sui soldi, il capo della Protezione civile Franco Gabrielli è stato imbrigliato: «Gli hanno messo le manette». Giusto, le vere emergenze pretendono un’elasticità che forse oggi non c’è. Ma come dimenticare gli abusi delle emergenze finte?
Lo scontro sulle responsabilità per la Caporetto di Roma, delle Ferrovie, di mezza Italia, messe in crisi da una forte nevicata pochi giorni dopo la figuraccia mondiale per il naufragio della Costa Concordia, deve essere l’occasione per far chiarezza. Ha detto il prefetto Gabrielli alle prime polemiche sull’intervento al Giglio: «Non sono potuto intervenire con la celerità di un tempo perché non avevo la certezza che un nostro intervento potesse essere coperto. Prima le ordinanze erano firmate in tempo reale, quel che faceva Bertolaso era legge».
È così? Gli aerei e gli elicotteri e gli uomini del soccorso non possono scattare in aiuto della popolazione in pericolo perché devono avere «prima» il via libera del Tesoro e della Corte dei conti, come denunciava ieri sul MessaggeroMiozzo («Siccome si è dovuto distruggere Bertolaso, è stato messo in discussione anche il suo modello») accusando l’impasto di lacci e lacciuoli imposti dai burocrati? Se è vero, la legge va cambiata. Subito. Prima che il Paese, tocchiamo ferro, sia colpito presto o tardi da nuovi lutti.
Gianni Alemanno ha denunciato la Protezione civile come dedita ormai al «passacarte». Gabrielli si è irritato, ma restano agli atti sfoghi come questo: «Non ne posso più delle accuse rivolte a una struttura un tempo eccezionale, super efficiente e che oggi, così com’è, è bene che si sappia, non serve assolutamente a niente».
Sarebbe un peccato, se quella macchina costruita a partire dai giorni in cui l’Italia intera soffrì e pianse intorno alla sorte di Alfredino Rampi, il bambino caduto nel pozzo di Vermicino, una macchina che si è fatta onore in tante situazioni di emergenza, venisse abbandonata a se stessa. Svuotata e svilita dalla dittatura dei ragionieri. Un Paese serio, quando i cittadini sono in pericolo, interviene. I soldi, in qualche modo, si troveranno.
Le rigidità denunciate oggi, però, non sono cadute dal cielo né sono il frutto del cinismo d’un governo tirchio per le sorti dei cittadini. Sono la conseguenza d’una stagione di conti troppo spesso spropositati fatti pagare per troppe emergenze che emergenze non erano.
Dice tutto la relazione 2010, pubblicata sei mesi fa dal Senato, dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. Dove si legge che, nel primo decennio di questo secolo, con una vertiginosa impennata di ordinanze e di soldi (22 per un totale di 143 milioni di euro nel 2000, 49 per quasi 4 miliardi nel 2009!) la Protezione civile ha deciso 375 interventi d’emergenza per un totale di 17.667.250.556 euro. Una somma enorme che con le aggiunte del 2011 arriva a circa 18 miliardi. Spesi in nome di uno Stato che, impantanato in una fanghiglia di regole vecchie e vischiose, invece che cambiare queste regole le scavalca, le aggira, le imbroglia con il trucco dell’emergenza.
Ed ecco che tutto diventa emergenza. Non solo le calamità naturali, ma i mondiali di nuoto e di ciclismo, il restauro del David di Donatello e della cattedrale di Noto (compreso quello «degli altari della navata e del transetto sinistri, del fonte battesimale e dell’acquasantiera») e poi i grandi raduni papali e il vertice di Pratica di Mare e la delocalizzazione degli sfasciacarrozze romani e i Giochi del Mediterraneo e la ristrutturazione col cemento a vista (uno stupro) del teatro di Pompei. Accompagnata dalla spesa di 55 mila euro per mille bottiglie di vino marca «Villa dei Misteri» o 102.963 euro per il censimento (non rimozione: censimento) dei 55 cani randagi che vivevano e ancora vivono tra le rovine: duemila euro a randagio.
Scelte incomprensibili per tanti cittadini, ma soprattutto per la Corte dei conti e l’Autorità di vigilanza. Che nel documento citato dice che l’organizzazione delle regate Louis Vuitton a Trapani (4 milioni e 600 mila euro) o le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia o l’Expo 2015 a Milano non c’entrano un fico secco con le emergenze. Quindi «le deroghe al codice dei Contratti pubblici non appaiono pienamente giustificabili».
Insomma, accusa il dossier, «rientra nella competenza della Protezione civile non qualsiasi grande evento, ma soltanto quegli eventi che, pur diversi da calamità naturali e catastrofi, determinano situazioni di grave rischio». In tutti gli altri casi, gli appalti non possono essere accelerati saltando tutte le procedure normali. Accelerazioni che, come noto, portarono a spendere ad esempio alla Maddalena, per il G8 poi trasferito all’Aquila, secondo gli ultimi calcoli, 476 milioni di euro.
Così come destano perplessità certi appalti «segregati» (come quelli per la pulizia di certe dépendance di Palazzo Chigi, con ribassi d’asta dello 0,5%: mai visti al mondo!) i quali secondo i giudici non consentivano «l’esonero da qualsiasi forma di concorrenza» poiché «la dichiarazione di segretezza non implica automaticamente il ricorso alla speciale procedura derogatoria». O le spese elencate dalla «Corte» per gli «arredi» delle foresterie dei Grandi alla caserma Coppito per il G8 aquilano: 4.408.993 euro.
Tutte cose che a un certo punto, tra inchieste e polemiche, spinsero nel febbraio scorso il ministero del Tesoro a dire basta: «Le ordinanze successive all’emergenza dovranno, senza più eccezioni, essere riportate allo schema ordinario dei controlli amministrativi e giurisdizionali previsti a miglior tutela del denaro del contribuente».
Aveva forse torto? Se certe rigidità sono sbagliate nell’emergenza, si cambino. Ma per combattere al meglio le emergenze vere, piantiamola con quelle farlocche.
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