by Editore | 17 Febbraio 2012 10:49
Il cuore della disputa non è l’atomica iraniana, ma l’egemonia dell’Iran in Medio Oriente: area dominata alla fine della prima guerra mondiale dalle potenze coloniali europee, dopo il 1945 dagli Stati Uniti e loro consociati arabi. Con la mal tollerata “entità sionista” come avamposto di Washington e il risorgente espansionismo turco alle porte. Per le ambiziose élite persiane, un mare di nemici e una fonte di frustrazione. Perché l’Iran ha da sempre una vocazione imperiale e mai vi abdicherà . Gli fa però difetto quell’arma nucleare di cui sono dotati tutti i primattori asiatici: Pakistan, India, Russia, Cina, Turchia (via Nato), Israele, Arabia Saudita (di fatto contitolare della Bomba di Islamabad) e Stati Uniti. Se l’atomica favorirà le aspirazioni di Teheran, dipenderà però molto dall’esito della guerra civile siriana: se al-Asad sarà travolto e a Damasco si affermerà una leadership assai meno filo-iraniana, Teheran perderà il corridoio diretto verso Libano, palestinesi e Mediterraneo. A ciò si aggiunge la lotta per il potere interna all’Iran, collegata alla depressione economica e al rischio di impazzimento della maionese etnica iraniana.
Israele, intanto, si divide tra fautori di un attacco preventivo ai siti nucleari iraniani (il premier Binyamin Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak) e quanti, a cominciare dal direttore del Mossad, Tamir Pardo, reputano tale attacco “un’idea folle”. Non già per ragioni morali, bensì strategiche: i siti atomici persiani sono troppi e troppo ben protetti per essere annientati dall’aviazione. I danni di un attacco sarebbero riparabili in un anno, forse due. Dopo di che il programma nucleare riprenderebbe più forte e legittimato di prima, mentre Israele si esporrebbe alla rappresaglia iraniana.
Quanto agli Stati Uniti, se non capiamo che la loro priorità è evitare il sorpasso cinese, ci sfugge l’essenziale. La mobilitazione dell’élite strategica americana nel contenimento della Cina implica il ridimensionamento dell’impegno su altri scacchieri. Europa, anzitutto. Ma anche Medio Oriente. Tuttavia, Obama non intende rassegnarsi ad allentare la presa su un’area doppiamente strategica, per difendere l’approvvigionamento energetico nazionale e per garantire la sicurezza di Israele (questioni assai sensibili nell’anno elettorale). Di qui le pressioni su Gerusalemme perché non esasperi la tensione con Teheran e l’inasprimento delle sanzioni, inteso non come preparazione alla guerra, ma come alternativa ad essa. Nonché la discreta riattivazione dei canali di comunicazione con Khamenei, tesa forse a indicare che l’America non esclude un accordo. Missione non impossibile, considerato che le batoste nella “guerra al terrorismo” e la sorpresa della “primavera araba” hanno indotto Washington a trattare con taliban e Fratelli musulmani.
Comunque, se quarta guerra del Golfo sarà , difficilmente si esaurirà in breve tempo. Le tre precedenti (Iran-Iraq, Iraq-Kuwait-Stati Uniti e Stati Uniti-Iraq-insorti) furono lunghe e sanguinose. E un Israele convinto di essere alle corde potrebbe scatenare un conflitto dagli esiti imprevedibili. “Talvolta la follia spinge ad abbracciare il disastro per sfuggire all’ansia”, osservò in piena guerra fredda Dean G. Acheson, uno dei saggi architetti del containment. In questo mondo, gli Acheson rischierebbero il manicomio.
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