La politica del dopo Monti
Lo scritto (Il Manifesto, 19 gennaio) è stato al centro la settimana scorsa di un aspro dibattito nel corso de L’infedele, il talk show di Gad Lerner su “La7”, e anche in quella sede si sono riprodotte le controversie, soprattutto tra esponenti di sinistra, riformisti ed estremisti, delle vecchie ma anche giovani generazioni. Le illusorie affabulazioni seguitano, evidentemente, a riprodursi e diffondersi come patologie ereditarie. Seguirò per comodità espositiva i “sette pilastri della saggezza” attorno ai quali Asor Rosa ha declinato la dialettica dell’odierna, inedita esperienza di governo, biasimata per contro da Rossanda che asserisce: «Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale… Non la linea di un governo la cui “tecnica” sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l’improvviso decisionismo del presidente della Repubblica… Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente premier, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere». Un rimbrotto al mancato ricorso alle urne che unisce l’elegante corsivista con gli urlatori di piazza, tutti affetti dalla idiosincrasia per la realtà . Non li sfiora il sospetto che se ci fossimo regalati la pausa elettorale sull’orlo del baratro finanziario, l’Italia avrebbe rischiato, con altissima probabilità di avvitarsi in una crisi verticale di sistema.
Il capolavoro di Napolitano è frutto di una percezione della realtà , drammatica quanto esatta. Di fronte alla insipienza litigiosa e alla perdita totale di prestigio internazionale della destra e alla palese incapacità della sinistra di presentare una alternativa percorribile, il presidente della Repubblica è riuscito ad inventare, proporre ed imporre un inedito meccanismo del potere che anche le parti in causa hanno subìto come unica via d’uscita. Uno strumento la cui tecnicità non sta solo nelle professionalità che ne caratterizzano i componenti ma nel fatto che il governo è di per sé sottratto alle perenni fluttuazioni, contraddizioni, blocchi interni ed esterni, derivanti dalla “politicità ” pervasiva delle precedenti coalizioni. Di qui anche una popolarità di massa, raccolta tra le moltitudini insofferenti all’eccesso di partitocrazia. Detto questo non va taciuto che, tanto più la soluzione sperimentata appare l’unica, nella sua urgenza e nelle sue forme, in grado di affrontare (e forse risolvere) una crisi finanziaria ed economica altrimenti devastante, tanto più la dialettica democratica tradizionale rischia di rivelarsi inutile, sempre tardiva, a volte dannosa, sovente inconcludente. È curiosa la duplicità di reazioni della sinistra tradizionale, riformista, sindacalista, ecologista od altro: tutte secernono querule lamentele, ma anche motivate proteste in rapporto a singole rivendicazioni popolari, tutte peraltro sembrano inficiate dalla pretesa, che a loro par naturale, di trovarsi alle prese con un governo di sinistra che non segue “la linea del partito”. Una volta ancora non si vuol leggere la realtà oggettiva della situazione e capire che questo non è un governo di sinistra come non lo è di destra, checché ne pensino cantautori di vario colore. I suoi membri sono, come tutti, soggetti ad errori ma quando vi incorrono questi non sono frutto delle imposizioni di partito né del tramutarsi dei ministri in cinghie di trasmissione delle varie segreterie. A questo autotravisamento ne corrisponde un altro ancor più allucinatorio di chi dà per definitivamente spacciato Berlusconi e giura che non potrebbe più tornare. Chi, come me, è ben convinto che la sconfitta del Cavaliere vada ben oltre la contingenza delle sue dimissioni e che un suo ritorno a palazzo Chigi suoni altamente improbabile, non è detto consideri del tutto fuori luogo immaginare un malaugurato ritorno in scena del personaggio, dettato magari da un momento di disperazione, un calcolo sbagliato, un sondaggio dissennato (corre voce che ne abbia ordinato uno sul plauso che potrebbe arridere ad una riedizione dell’accordo con Bossi in chiave antieuropea e di uscita dall’euro). È forse prova di eccessivo pessimismo prestare solo una fiducia pro tempore all’impegno di Berlusconi di voler anteporre a tutto gli interessi del Paese?
Piuttosto vi è un altro fattore da tener ben presente. Il risultato forse più importante dell’avvento di Mario Monti è il recupero, non certo totale ma significativo, del ruolo italiano in Europa. È qualcosa che conta sul piano politico ma anche economico. Lo spread del prestigio a nostro favore ha guadagnato parecchi punti. Ma quel che va valutato è il carattere bilaterale del moto di recupero nel senso che è risultato molto chiaro, da un certo punto in poi, quanto cominciasse a contare nelle cancellerie europee (ed anche a Washington) l’esigenza di un partner italiano affidabile. Si è trattato di un sentimento sempre più avvertibile e imperniato sugli irrituali quanto calorosi rapporti personali con Giorgio Napolitano, rapidamente percepito come l’unico leader italiano di livello europeo. Non è del tutto un paradosso immaginare che ancora una volta il recupero delle “magnifiche sorti e progressive” del nostro Paese stia passando attraverso l’alleanza tra una minoranza illuminata e patriottica e potenze straniere in funzione liberatrice. Così fu unita l’Italia con le tre Guerre d’Indipendenza, con il patrocinio di Napoleone III e del governo inglese; così Trento e Trieste furono redente, grazie alla Triplice Intesa; così la Liberazione del ‘45 non ci sarebbe stata senza gli Alleati. Può sembrare un paradosso esagerato ma dopo quasi vent’anni di berlusconismo che sembrava intramontabile, una fuoruscita al ritmo aggraziato di un minuetto, sarebbe stata possibile senza l’evidente benedizione dei nostri alleati storici (e nell’ultima dirittura anche della Santa Sede)?
Resta, come accennato più sopra, un ultimo quesito. Se la splendida invenzione del laticlavio a Monti e del varo di un governo tecnico libero dal giogo partitico quotidiano rappresenta in questa fase un passaggio ottimale, come si riguadagnerà un ruolo alla rappresentatività democratica? O dobbiamo riconoscere che al giorno d’oggi la soluzione delle situazioni complesse implica una macchina del potere tecnica e per ciò stesso super partes? È un pericolo reale e con una sua forza cogente. Una risposta valida implica il ripudio delle formule scontate, non bastano l’appello alla bontà della libera alternanza, il richiamo formale alla Costituzione. Dobbiamo invece affrontare la sostanza delle cose, prender di petto la crisi della democrazia, asserirne la verità per quanto spiacevole. Ogni giorno si moltiplicano le malversazioni, i furti, le denunce di nuove combriccole del malaffare tra pubblico e privato. Solo pochi giorni fa è venuta fuori l’ultima cifra di due miliardi e 750 milioni di contributi distribuiti a partiti grandi e piccoli, molti ormai inesistenti. La politica si rivela principalmente una macchina per far soldi. Urge, in primo luogo da parte dalla sinistra, una svolta radicale: la proposta di un taglio della metà dei seggi parlamentari da portare avanti fino alla approvazione attraverso una grande battaglia di massa, tipo raccolta delle firme contro la bomba atomica o a favore del divorzio. A questo far seguire il dimezzamento retributivo di tutte le cariche politiche nazionali e locali. Ripulire il rapporto tra politica e affarismo dovrebbe diventare l’asse centrale di un recupero indispensabile per ristabilire un rapporto tra democrazia e politica. Le forme istituzionali seguiranno. Questo non sarebbe certo un impegno per tecnici.
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