La politica a scuola dai tecnici

by Editore | 23 Febbraio 2012 9:02

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E arrivano sorprese a catena. 
La prima consiste nello scoprire che intorno a questo «corso strutturale di serietà », grazie al quale si riescono a prendere «decisioni non sempre gradite» (sempre parole del primo ministro), sta sobriamente lievitando un capitale di consensi, un tesoretto di voti che può far saltare il banco dei vecchi equilibri e di tanti calcoli che, sia a destra sia a sinistra, si basavano sull’amministrazione dei rispettivi, cosiddetti, bacini elettorali. L’aspirazione a incorporare il nuovo corso si affaccia da entrambi i lati, esclusi gli irriducibili, e sembra prevalere rispetto al timore che le scelte «impopolari» creino scontento. Insomma i grandi schieramenti futuri, quali che siano, avranno più da guadagnare investendo sull’eredità  di questo governo piuttosto che giocandogli contro. 
E qui arriva la seconda sorpresa: i partiti hanno fatto un passo indietro, sia pure appoggiando il governo, per lasciare ai «tecnici» il compito, per loro impossibile, di distribuire medicine amare e poi si trovano a scoprire che con le medicine amare si raccolgono più voti che con i loro sciroppi dolciastri. Curiosa lezione da consegnare ai teorici della politica: i leader delle due ali contemplano lo spettacolo di qualcuno, che, mentre loro si fanno da parte, realizza quello che da soli mai avrebbero potuto, e che, così facendo, sembra accumulare un fascino elettorale nettamente superiore a quel che resterà  tra le mani dei partiti alla fine di questa fase «interstiziale». 
Terza sorpresa, i teorici della politica, tanti e pur diversi (da Jon Elster a Jà¼rgen Habermas, da Cass Sunstein a Bruce Ackermann e molti altri) rispondono: «Grazie, lo sapevamo già ». Infatti non è vero quello che pensano tanti leader nazionali che compaiono nei tg (a occhio: la maggioranza) quando consegnano alle telecamere la preoccupazione per questo o quell’interesse ferito, una volta i tassisti, un’altra i farmacisti, altre ancora i metalmeccanici. Sono convinti che la politica consista principalmente nel difendere gli interessi di un’area elettorale, nel gestirla con cura in modo da preservare il patrimonio ereditato (ogni riferimento al denaro è qui del tutto casuale) e trasmetterlo ai posteri. Ma la sola percezione, adesso sempre più chiara, che, a forza di misure «impopolari» come il pensionamento a 67 anni e più tasse sulla casa e – Dio non voglia – una revisione dell’articolo 18 e dintorni, il governo «tecnico» stia aggregando un grande potenziale di voti, dimostra che l’idea della politica come custodia di un bagaglio o come gestione di un orto è povera cosa e non trova riscontri né nella pratica né nella scienza politica. 
E qui arriva la spiegazione fornita dalla teoria (e dal buon senso): la politica non è solo, e forse non è per niente, una tecnica di misurazione delle preferenze o degli interessi, ma – udite udite – essa consiste di altre più sottili e ardue capacità , quelle di trasformare le preferenze degli elettori e di spingerli persino a reinterpretare i loro propri interessi, riflettendoci sopra, fino a persuadersi ad accettare misure che sembrano contraddire nel breve termine sia le loro preferenze sia i loro interessi. La politica non è la stessa cosa dei sondaggi, ma un processo che prevede, in democrazia, l’evolvere dei giudizi attraverso la discussione e la riflessione. E – miracolo – le opinioni cambiano, evolvono, tengono conto e molto dell’interesse generale e del futuro, non solo, ottusamente, della propria bottega oggi. Ottuso è chi non se ne accorge. 
Certo non bisogna esagerare nelle pretese «trasformative», ci sono politiche e ideologie ad altissimo livello di trasformazione fino all’autolesionismo per il bene della causa e del partito o della fede: un po’ di fame oggi in cambio di un radioso futuro, lontanissimo o nell’al di là . E ci sono politiche a livello trasformazione zero: dammi il voto in cambio di un paio di scarpe o di una pensione di invalidità . Si possono ben classificare i progetti politici, come ha suggerito Elster, nei suoi lavori sulla democrazia deliberativa (Cambridge, 1998) in base alla quantità  di trasformazione e reinterpretazione che richiedono: ed è da notare che, alla prova dei fatti, è stupefacente quanto il «disinteresse» possa funzionare. Purché il gioco valga la candela. Ed era questo il nostro caso: tirare fuori l’Italia e l’euro da una zona ad alto rischio, rimettere in cammino la crescita, superare i «poteri di blocco» (ancora Monti). 
Va bene tenersi lontani dagli estremi del voto di scambio e del riscatto salvifico, ma l’incapacità  di distaccarsi anche di un’ unghia dal presunto interesse immediato degli elettori, siano essi poveri pensionati o proprietari di grandi patrimoni, rivela nient’altro che il furioso conservatorismo dei partiti e la loro incapacità  di fare progetti, di fare politica. Nel nome del realismo ha prevalso finora la convinzione che gli Italiani non cambieranno mai e che la loro predilezione per il do ut des con una politica di gestione ordinaria dell’orto elettorale, sarebbe continuata indefinitamente. È la mentalità  prevalente dei politici che ci ha portato fin qui. 
Il curioso destino di questo Paese ha messo nelle mani di un gruppo di tecnici il compito di mostrarci come la politica sia anche un’arte trasformatrice delle preferenze. È già  ora una piccola indimenticabile rivoluzione.

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