La «parentesi» Monti potrebbe continuare anche oltre il 2013

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Dire, come fa il leader dell’Udc, che un anno di governo dei tecnici non basterà  a risolvere la crisi italiana, è un’affermazione perfino banale nella sua evidenza. E colpisce, specularmente, l’insistenza con la quale il presidente del Consiglio definisce il suo incarico a Palazzo Chigi «una parentesi». Nel 2013 la legislatura deve comunque finire e si torna alle urne; e Monti lascerà  Palazzo Chigi. Viene dunque naturale chiedersi il perché di queste precisazioni ripetute. Certamente l’attuale premier non sarà  candidato di nessuno alle prossime elezioni.
Ma questa è la premessa. Il fatto che i partiti discutano sulle trasformazioni che l’«effetto Monti» sta producendo su di loro dimostra quanto sia difficile definire il suo Esecutivo solo una parentesi. L’ipotesi del Pdl di rinunciare al nome alle prossime amministrative, e lo scontro a sinistra fra «montiani» e non a partire dall’articolo 18 sui licenziamenti, sono annunci di una metamorfosi. È come se il sistema politico si preparasse a riplasmarsi tenendo conto del mutamento che il governo dei tecnici ha accelerato. L’idea di Casini di creare un nuovo «contenitore» è la conseguenza inevitabile di un’analisi che considera gli attuali partiti come gusci vuoti: compreso il suo.
Lo scontro che si sta profilando non riguarda solo l’esigenza di riempirli con nuove suggestioni, ma di cambiarne le fondamenta, la cultura e il profilo, se non la classe dirigente. Da questo punto di vista, il «montismo» è una sorta di nuova ideologia tecnocratica e prepolitica, destinata non solo a ridefinire l’immagine dell’Italia in Europa e sui mercati finanziari, ma a influenzare l’offerta elettorale italiana; e ben oltre il 2013. Basta vedere come sta gestendo la riforma del mercato del lavoro, fra proposte di accordo e minacce di andare avanti comunque: qualcosa di impensabile fino a qualche tempo fa. Per questo, quando Casini evoca il ruolo di Monti non pensa a candidarlo a Palazzo Chigi, perché sa che è impossibile.
Tuttavia, sembra sperare in un nuovo sistema di voto che archivi le alleanze spurie della Seconda Repubblica. «Il governo Monti non è nato per incidente della storia: è lì da quattro mesi e non credo che riuscirà  a fare tutto il lavoro che si richiede per l’Italia in un anno», insiste. Il progetto che i centristi coltivano non è tanto di puntellare e rafforzare una loro posizione di rendita fra gli schieramenti: quel vantaggio sarebbe apparente e velleitario, dal momento che centrodestra e centrosinistra come si configuravano nel 2008 non esistono più. L’idea è di convincere i partiti a prendere atto che una fase storica si è conclusa; e che sarebbe inutile attardarsi nella difesa di meccanismi elettorali incapaci di garantire non la vittoria ma un governo: in una fase economica così drammatica, significherebbe riconsegnarsi all’incertezza. 
L’obiettivo è invece di combattersi senza escludere di scegliere il capo del governo dopo le elezioni. Insomma, l’anomalia di Monti comincia ad essere percepita come necessaria non solo fino al 2013. La «parentesi» aperta cento giorni fa si prolungherebbe per buona parte della legislatura successiva, con l’attuale presidente del Consiglio adottato dal sistema politico come risorsa da non consegnare alle istituzioni europee ma da spendere «in casa»; e nel ruolo che apparirà  più opportuno. Anche perché gli investitori esteri non si limitano ad applaudire quanto l’Italia sta facendo in tema di riforme. Vogliono soprattutto sapere che succederà  fra un anno e mezzo; e chiedono garanzie. Per paradosso, anche i partiti si chiedono quale sarà  la geografia politica fra dodici mesi; e anche loro non sanno darsi una risposta. Può spuntare così una convergenza di interessi inedita: per ragioni diverse, partiti e mercati costretti a scommettere su Monti.


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