LA LIBRERIA LOCAL

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In tempi di fatturati sempre più magri e con lo spettro del mercato digitale alla porta, i librai si interrogano sul loro futuro. Lo fa in Italia il libraio indipendente Piero, nella defilata Acqui Terme, ma anche il colosso del Regno Unito Waterstones, che dopo aver aperto e trasformato le sue trecento librerie in supermercati della carta stampata, ha annunciato una clamorosa retro marcia. 
Il suo nuovo manager, James Daunt, classe 1963, un riservato e tranquillo esponente della borghesia upper class londinese, intende suddividere la catena di librerie in una quarantina di gruppi più piccoli, diversificati e molto più specializzati. Il che non significa necessariamente abbandonare il modello dei grandi store dall’assortimento prodigioso, i libri di vendita facile o i commessi interscambiabili, ma sicuramente ripensare alla libreria come a un luogo socialmente particolare. «Le singole librerie sono più importanti di Waterstones», dichiara Mr. Daunt, specificando che non esiste un unico modello di catena che necessariamente funzioni. 
Perché il vero motivo, oggi, per entrare in una libreria è che si tratta di una buona libreria. La ricetta di Daunt poggia su una rete di manager commerciali responsabili di non più di dieci negozi, che dovranno differenziare e rendere unici i loro punti vendita, in controtendenza, quindi, con le logiche del franchising. Ogni libreria potrà  essere diversa: la presenza di una caffetteria avrà  senso se nel quartiere dove sorge la libreria non c’è un’altra buona caffetteria, altrimenti non è obbligatoriamente necessaria.
Ci sarà  una Waterstones specializzata in libri per bambini (e con scaffali bassi) in quel quartiere residenziale particolarmente popolato di giovani lettori, e una fornitissima di saggistica accanto al Campus universitario. Dare i giusti libri ai giusti lettori, insomma. Una ricetta “mirata” molto diversa da quella che propone il colosso americano Barnes & Nobles, intenzionato, invece, a continuare con il suo modello “generalista”, con un fortissimo incremento, però, del reparto tecnologico. L’idea è quella di proporre l’e-book (vedremo come) sullo stesso piano del cartaceo. Con un rischio: quello di mettere il libro, se si allarga l’hi-tech a tutto, nello stesso calderone degli altri strumenti di cannibalismo del tempo libero. 
E tra B&N e Waterstones, due modelli opposti, è in corso di definizione un accordo per la diffusione nel Regno Unito del Nook, il lettore e-book anti-Kindle che ha ottenuto un buon successo nel (solo) mercato Usa, e questo perché, dice Daunt, «è evidente che anche noi dovremo vendere libri digitali, dal momento che i nostri clienti li vogliono leggere. D’altra parte lo schermo del computer non è un bel posto dove acquistare libri: è più bello toccarli, sentirli, in un luogo fisico». Ma non basterà  esporre Nook a salvare le librerie, così come non lo saranno eventuali aiuti governativi. «Forse in Francia, ma non nel Regno Unito». L’idea del manager di Waterstones è coerente con la reale sfida del momento: nell’epoca della conoscenza e dell’informazione, a fare davvero la differenza sono il talento e le competenze di chi lavora. E di chi sa offrire un sistema coerente di valori fondamentali. 
Nonostante tutti gli algoritmi, infatti, i sistemi di suggerimento automatico del “diavolo” Amazon non potranno mai sostituire l’attenzione e la cura di un bravo libraio (come dice Daunt “editori, librai e agenti sono legati: o sopravvivono insieme o resterà  un unico ente, Amazon, che rimpiazzerà  tutti. Per questo la battaglia è comune”). Ed è proprio nel rapporto umano tra il libraio (e suoi commessi) e il cliente, all’interno di un negozio con una particolare atmosfera, che si gioca tutto. La catena di Borders (fallita) aveva fatto delle librerie dei luoghi dove leggere, bere e mangiare, ma le interazioni personali e le occasioni di arricchimento di un caffè e di un negozio di libri sono completamente diverse. Che cosa cerca infatti il compratore di libri? Stupore e comprensione. Da quando lo conosco, il libraio Piero ordina i quantitativi di libri scegliendoli a uno a uno dai vari cataloghi, e si difende dal marketing imposto dalle case editrici non perché sia particolarmente scontroso o reazionario, ma perché sa prevedere che cosa e a chi venderà . 
I Di Giulio di Matera, ad esempio, puntano sulla localistica e sugli autori che possono generare interesse solo in un ristretto numero di chilometri, e questa è un’altra delle strategie annunciate dal management di Waterstones: non tutti i lettori, infatti, si interessano a tutto. Claudio, a Verona, preferisce organizzare le Libriadi con le insegnanti della zona, che saranno più facilmente suoi clienti per lungo tempo, piuttosto che invitare l’autore del momento. 
Essere una buona libreria non è però necessariamente una caratteristica degli indipendenti: Daunt stesso dice di ispirarsi al modello di catena vecchio stile, riconoscendo anche in loro una filosofia di incontro culturale con i loro clienti. Occorre diventare sfidanti sulla percezione del luogo, sulla competenza, sulla capacità  di scoperta e di suggerimento. 
Il buon libraio non ama necessariamente i libri. Ama chi li legge. Roberto Calasso, in una lettera in calce a un saggio per librai (Vendere l’Anima, Laterza), scrisse che «la buona libreria è quella dove ogni volta si compra almeno un libro. E molto spesso non quello o non solo quello che si intendeva comprare quando si è entrati». 
I tempi non sono facili: a Bologna rischia la chiusura la vecchia Zanichelli, a Roma dopo la storica Croce e Bibli sta per dare l’addio (lo annuncia il sito Finzioni) Amore e Psiche. Ogni giorno ha la sua pena. Eppure c’è chi, come Daunt, propone dei modelli per resistere. I buoni lettori hanno con le loro librerie un legame simile a quello che si ha con il proprio barbiere: un investimento di confidenza che non si vuole perdere. Che sia la Libreria Central di Barcellona, dove sono presenti le versioni in varie lingue degli stessi romanzi, o la Hatchard’s di Londra, poco importa. Quest’ultima è un gioiellino architettonico specializzato in libri per ragazzi autografati: ogni volta che esce qualcosa di nuovo cerco di passare davanti alla loro vetrina per vedere se ne avessero già  una copia firmata. Ecco: c’è scritto che sono librai dal 1797. E poi ho scoperto che è una libreria Waterstones.


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