by Editore | 8 Febbraio 2012 7:43
La loro assenza può irritarci, gettarci nel panico, o divertirci come un curioso anacronismo. Chi di noi non resta perplesso di fronte al fatto che l’America si ostina a misurare le lunghezze in pollici, piedi e miglia, il peso in libbre, quando il resto del mondo ha adottato il sistema metrico decimale? Come non irritarsi quando all’arrivo in hotel in un altro continente si scopre che le prese elettriche sono diverse? E voi osate affittare un’auto in un paese con la guida a sinistra? Io no. Ma questi per fortuna sono i rari esempi al contrario, le eccezioni, in un mondo che ci rassicura, ci tranquillizza, e funziona: è il nostro mondo regolato dagli standard. Sono essenziali quasi come l’aria che respiriamo, e infatti quasi come l’aria sono diventati invisibili, li diamo per scontati. Ci sembra assurda l’idea che possano “non” esistere. Ve l’immaginate se ogni città avesse una regola diversa sul colore dei semafori? A Roma si passa col verde ma a Milano bisogna aspettare il blu e a Parigi il segnale dell’alt è viola a strisce marroni? Eppure ci fu un’epoca non lontanissima in cui il mondo era proprio fatto così. Non solo una Babele di leggi e linguaggi, di regole e costumi, ma anche di pesi e misure. Un mondo dominato dall’imprevedibilità , dalla non traducibilità , dalla non riproducibilità delle cose. La frontiera tra quel mondo e il nostro, coincide con l’Illuminismo da una parte, la rivoluzione industriale dall’altra. In questo senso gli standard sono figli di un pensiero progressivo e ottimista, ma si sposano perfettamente con lo sviluppo del capitalismo. Un sociologo della Michigan State University, Lawrence Busch, ha dedicato alla loro storia un saggio dal titolo Standard: Recipes for Reality. Ricette per la realtà , nientemeno. In effetti, almeno la realtà che ci circonda da un paio di secoli, è regolata e definita dagli standard. Gli esempi abbondano, sulla loro funzione essenziale in ogni gesto della vita quotidiana. Ovviamente ciascuno di noi perderebbe treni e aerei, appuntamenti di lavoro importanti, e condurrebbe una vita assai disordinata, se non ci fosse un’ora standard fissata per fusi a partire da Greenwich (basta risalire indietro di pochi secoli o spostarsi presso alcune tribù aborigene in Amazzonia, per trovare un concetto dell’orario meno preciso). Dalla qualità del cibo che compriamo al supermercato, al tipo di benzina che mettiamo nel serbatoio dell’auto, il consumatore contemporaneo vive in un universo “protetto” dagli standard. Altri sono più lontani dai nostri occhi, eppure perfino più essenziali. Immaginate cosa sarebbe lo stato della medicina e della nostra salute, se una radiografia fatta in un particolare laboratorio non potesse essere letta in un altro laboratorio, per mancanza di standard comuni negli apparecchi a raggi X. Tutti gli esperimenti della scienza moderna si basano sul principio di comparabilità , quindi di standardizzazione. L’economia moderna non sarebbe quella che è, se negli anni Cinquanta non fosse iniziata la standardizzazione delle misure del container, la “scatola globale” che sposta merci su gomma, rotaia e nave da un continente all’altro. Non deve esserci un millimetro di differenza tra due container, perché siano intercambiabili e viaggino senza intoppi. Non a caso i regimi autoritari che vogliono l’isolamento dei propri paesi hanno spesso mantenuto ferrovie “a scartamento ridotto”, con treni che non potevano varcare la frontiera. Non riusciamo neppure a immaginare un mondo in cui il testo che io sto scrivendo su questo computer non è leggibile su un computer di una marca diversa; è inconcepibile che una email partita da un indirizzo Gmail non sia leggibile se il destinatario ha la posta su Fastweb; o una chiamata da un cellulare Nokia non raggiunga un iPhone della Apple.
Gli standard hanno nature molto diverse. Paradossalmente, la parola standard in inglese contiene perfino una dose di… imprecisione. Può indicare una misura universale, come il minuto secondo scandito da un orologio atomico. Può indicare una media: il peso “normale”, la statura “normale”. Infine può indicare un criterio morale: uno standard di senso del pudore, buona educazione, civismo. La “standardizzazione” ha inizio con l’Illuminismo, spiega Busch, perché quella filosofia segna una cesura rispetto alle epoche precedenti: è l’inizio di una storia fondata sulla fiducia nella ragione umana, quindi la ricerca di valori universali. Da lì discende la ricerca di criteri comuni e omogenei, dalle scienze alla tecnica. Certo vi erano già stati dei pensatori “universali”, da Archimede a Galileo. Ma con l’Illuminismo parte un progetto che vuole estendere questo approccio razionale all’umanità intera, “massificando” le conquiste della élite intellettuale. Questa rivoluzione culturale converge con l’industrializzazione: la produzione di massa, la specializzazione del lavoro, l’apertura di nuovi mercati, richiedono degli standard. A volte questi vengono calati dall’alto, altre volte emergono faticosamente dopo una concorrenza e selezione, oppure vengono adottati per imitazione di un modello vincente. Alcuni esempi sono curiosi nella loro genesi, come quello della tastiera “q-w-e-r-t-y”, la più diffusa nelle macchine da scrivere e successivamente nei computer. L’origine del suo successo risale alla macchina da scrivere Remington del 1878 e quella particolare successione di lettere risolveva un problema pratico: evitare gli ingorghi che si creano quando le gambe-supporto delle lettere s’incrociano sulla carta. Perciò la tastiera distanziava tra loro le lettere battute più spesso; con l’effetto voluto di rallentare le dattilografe. Ovviamente questa disposizione non è affatto razionale per il modo in cui scriviamo oggi, ma la permanenza dell’ordine “qwerty” è una prova di resistenza degli standard. È anche un caso interessante di “codice aperto”: tutte le marche produttrici di macchine da scrivere copiarono la Remington senza doverle versare copyright. In epoche recenti, interi settori di tecnologie nuove sono stati campi di battaglia fra standard diversi: Vhs e Betamax all’epoca delle videocassette; poi Blu Ray (Sony) e Hd-Dvd (Toshiba); Flash e Html5 nei video digitali. Il consumatore sa che puntare sullo standard perdente può costargli caro: significa mettersi in casa un apparecchio (o un software) che dopo qualche anno è diventato un oggetto da museo. Siamo quindi tutti favorevoli agli standard? Dipende. C’è una corrente critica del capitalismo, che vede negli standard una forma di banalizzazione, impoverimento, distruzione della creatività . In una economia troppo standardizzata, la concorrenza può spostarsi esclusivamente sul prezzo, a scapito della qualità . Oppure, il rischio è che gli standard “concordati” fra grandi gruppi industriali non siano i più efficienti. Un altro tipo di perversione si verifica nell’istruzione – quella americana in particolare – con l’adozione di test standardizzati: per cui lo sforzo dell’insegnamento si concentra sull’addestrare gli studenti a passare i test. Ma la più tenace resistenza contro gli standard viene da alcune correnti del pensiero conservatore. Come descrivere altrimenti, il rifiuto da parte della destra americana di tutta la mole di ricerche scientifiche sul cambiamento climatico? O la battaglia sempre aperta per l’insegnamento del creazionismo nelle scuole, contro la teoria dell’evoluzione? A supporto di queste campagne, emerge quasi sempre il rifiuto di una dimensione universale della scienza. L’Illuminismo non ha ancora vinto.
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