La critica d’oggi al filtro di Leopardi

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Troppo spesso ci si sente domandare, nell’epoca della cultura appiattita a comunicazione e della recensione ridotta a spot editoriale, a cosa serva, ancora, la critica. Tra le tante definizioni da recuperare, primariamente quella che dà  il titolo al libro postumo di Guido Guglielmi: Una scienza del possibile. Studi su Leopardi e la modernità , a cura di Niva Lorenzini (Manni, pp. 187, euro 18). Dove la congiunzione del sottotitolo sottolinea tanto il rapporto tra il poeta e il tempo che anche da lui s’inizia, quanto l’eredità  che se ne può trarre nella fase che di quella modernità  si è fatta seguito, rinnovamento e in qualche caso tradimento, come la presente. 
Ma con ordine: prima la «scienza» del titolo, che è, anzitutto, la stessa critica letteraria nel suo concreto farsi discorso «del possibile», e dunque nel farsi discorso solo a condizione di accompagnarsi a quella specifica, esattamente come per l’oggetto di studio particolare. Che Leopardi abbia fondato la propria teoresi più avanzata su un tentativo (e tale, peraltro, rimane) di riaffermazione per via immaginosa e mitica della forza di quelle «illusioni» vitali via via sacrificate, scardinate, abbattute e rese inoperanti dalla moderna «ragione», è cosa nota. Nuova è però la riconduzione non limitativa, da parte di Guglielmi, di tale tentativo entro i termini della «possibilità » (oggi forse diremmo della virtualità ), e dunque della «soggettività », altrettanto legittima, ontologicamente, dell’evidenza del vero (o «necessità »). 
A fronte della ineludibile constatazione della finitudine e mortalità  di tutte le cose, Leopardi trova cioè la propria via di riscatto attraverso l’immaginazione, o «inganno del pensiero fingente» secondo la formulazione adoperata per L’infinito da Luigi Blasucci. Il quale, peraltro, con concetto analogo a questo di Guglielmi, rinveniva, in un’occasione orale, la «forza» della poesia leopardiana proprio nello scarto tra la constatazione dell’onnipresenza del male e l’inesausta protesta: «Le cose», diceva Blasucci (citandolo a memoria), «stanno così: e questo lo registra la prosa. La poesia, però, contemporaneamente rivendica: “e a me non sta bene, che stiano così”». 
In realtà  la soggettività  di cui parla Guglielmi è al tempo stesso meno protestataria e più «tragica» (categoria più volta introdotta nei saggi, a correggere la portata effettuale di questa rivoluzione euristica, in special modo in riferimento alla Ginestra, in cui si configurerebbe un io «duramente antagonistico e polemico»), dal momento che il soggetto non può nascondersi l’autoinganno, e dunque l’inefficacia della protesta a mutare la sostanza del vero (l’impotenza del falso, diremmo, rovesciando Leopardi). 
Ne consegue, per Guglielmi, la lettura in chiave nichilista dell’Infinito come «autopoesia» tesa a sostenere tanto a livello concettuale che verbale la preminenza del nulla sull’aspettativa di bene, di felicità , di piaceri infiniti. Tesi non condivisa, tra l’altro, da Pier Vincenzo Mengaldo, che nella recente Antologia leopardiana. La poesia (Carocci, pp. 220; euro 17, insieme a La prosa, pp. 241, euro 18,70) corregge esplicitamente Guglielmi, parlando, al contrario, di «poesia affermativa» e ritenendo perlomeno discutibile l’interpretazione dell’«infinito come nulla». Antologia, questa di Mengaldo, che sin dall’introduzione, però, di quella modernità  di cui Guglielmi fa puntello per il proprio ragionamento attorno a Leopardi, esalta (come in altri precedenti studi) l’aspetto anzitutto formale ed espressivo, parlando su entrambi i fronti, per certi versi piuttosto audacemente, non solo di «sperimentazioni», ma addirittura di «atteggiamento rivoluzionario», in particolare ravvisandolo nell’oscillazione, che della poesia leopardiana finirebbe col costituire la marca più potente, tra «sobrietà  elocutiva» e «agitazione sintattica» o «eccitazione sonora». 
Quello del rapporto con la poesia tradizionale e, ancor di più, dell’imitazione degli antichi, dei loro temi come delle forme, rimane un motivo teorico essenziale anche nell’analisi di Guglielmi, dove lo si affronta sempre con un occhio ai testi poetici e un altro ai Discorsi leopardiani, pur nella consapevolezza che il nesso strettissimo in questo autore tra poesia e pensiero non vada mai inteso nel senso dell’applicazione sterile del secondo alla prima, e che tra l’uno e l’altra il rapporto sia quello che Adorno avrebbe definito nei termini di una «metodica non metodicità ». 
È pur vero che il maggior pregio di questi saggi non è quello d’intrattenersi sui temi più battuti dall’eterno leopardismo (pure ripresi e svolti ottimamente, sotto la specola del connubio contenutistico-formale), quanto, piuttosto, di aprire squarci di consapevolezza sul nostro senso del moderno, attraverso la riflessione, precocissima in Leopardi, su alcune pratiche o dinamiche che non solo dello scenario contemporaneo sarebbero andate a costituire le condizioni dominanti in cui si esercita l’attività  letteraria, ma che non hanno, poi, più trovato nessuna formalizzazione compiuta ed esatta come quella, rispetto a fenomeni che appaiono tutt’ora evidenti quanto scomodi, diffusi quanto sfumati.
«Ci sarebbe», scrive Leopardi nello Zibaldone in data 21 settembre 1828, «un altro partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l’una per gl’intendenti, l’altra per il popolo. Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe». E subito dopo si definiscono le prime «letterature perfezionate», distinte, cioè, da quello che oggi chiameremmo il mainstream. La menzione di questo pensiero da parte di Guglielmi fa coincidere ancora una volta l’oggetto dell’analisi critica con la configurazione in atto di quest’ultima: una pratica che non somiglia in niente alla critica-spot, e che ha bisogno, per essere compresa, di conoscenza, studio, concentrazione, ritorni. Una critica densa, esatta, complessa, coerente, di «metodica non metodicità »: una critica, ovviamente, «perfezionata».


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