LA CONTABILITà€ DELLE AMBIZIONI
Né ci sorprende il senso di frustrazione del sindaco di Roma Gianni Alemanno: dopo due weekend di fila sotto la neve e le polemiche sulla gestione dell’emergenza meteorologica, il «No» di Mario Monti alla candidatura della capitale per l’Olimpiade del 2020 è un colpo impossibile da assorbire.
Temiamo tuttavia che abbia ragione l’organizzatrice di Torino 2006, Evelina Christillin. «Da sportiva ero assolutamente a favore di Roma 2020 e avrei sottoscritto l’appello firmato dai 60 campioni, ma sono più comprensibili le ragioni addotte da Monti», è stato il suo commento. Un realismo doloroso e appassionato, che fa il paio con quello di Pietro Mennea: «Mai potrò essere contrario all’Olimpiade. Ma ritengo che organizzare un evento come questo comporterebbe ulteriori sacrifici che potrebbero avere gravi conseguenze sul futuro».
Il futuro, appunto. Quello che il premier afferma di non voler compromettere con un impegno finanziario che «potrebbe gravare in misura imprevedibile sull’Italia». Monti se la sarebbe potuta cavare dicendo che «mancano i soldi». Invece è andato oltre. «Imprevedibile» è una parola che denuncia la fragilità estrema del nostro sistema. Un fattore che nessuno, fra i tifosi di Roma 2020, è sembrato tenere in debito conto. Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un’operazione «a costo zero» con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero?
Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi. Non per colpa dei ragionieri, ma di una macchina impazzita che macina ricorsi al Tar, arbitrati, revisioni prezzi, varianti in corso d’opera, veti di chicchessia: dalle Regioni alle circoscrizioni. Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d’Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi.
Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l’equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro attuali, l’84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai mondiali di nuoto senza le piscine. In compenso, però, con una bella dose di inchieste giudiziarie.
Questo è un Paese nel quale da dieci anni si monta e poi si smonta, quindi si rimonta, per poi smontarla di nuovo, la giostra del Ponte sullo Stretto di Messina: incuranti di penali monstre che nel frattempo lo Stato si è impegnato a pagare. Dove i costi della metropolitana C di Roma esplodono in modo così fragoroso che non è possibile immaginare quando e se la vedremo finita. E uno sguardo andrebbe rivolto anche all’Expo 2015 di Milano, per cui la Corte dei conti ha eccepito che «la complessità , l’onerosità e la ridondanza delle strutture» decisionali rischia di causare «difficoltà e disfunzioni sul piano operativo».
Conosciamo l’obiezione: i precedenti disastrosi non sono un buon motivo per non fare le cose. Giustissimo. Ma sono un’ottima ragione per andarci con i piedi di piombo. Almeno quando rischiare una montagna di denari pubblici non è proprio necessario. Come adesso.
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