LA CONCORRENZA CHE NON SI VEDE

by Editore | 23 Febbraio 2012 7:39

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Benché abbiano fin troppi e inutili precedenti, queste polemiche possono ancora servire al Paese se riuscissero a innescare altri dibattiti, di maggior sostanza. 
La recessione morde. Nei supermercati le vendite calano già  alla seconda settimana. E a gennaio la spesa pubblicitaria è crollata, si dice, del 15-20%. Di questo passo, né Rai né Mediaset riusciranno a salvare il conto economico del 2012 senza tagliare pesantemente i costi. La Rai prevede di perdere 16 milioni, presupponendo un fatturato pubblicitario invariato sul miliardo di euro. Sarebbe meglio se si attrezzasse per un deficit di un centinaio di milioni. Con un debito in crescita rispetto ai 320 milioni di fine anno, gran brutto segno in un’azienda in teoria ricca di cassa. Mediaset non diffonde budget. Ma se perde il 10% della raccolta su base annua — la Spagna va peggio dell’Italia — finirà  per bruciare i margini. Non a caso Silvio Berlusconi torna a occuparsi del Biscione, un’impresa che nel primo semestre 2011, rileva Mediobanca, ancora aumentava i costi mentre le altre tv commerciali europee avevano già  impugnato il bisturi. Non ci sarebbe da stupirsi se presto Mediaset fosse affidata a un manager esterno alla famiglia, più adatto alla bisogna. Ma se tanto può bastare alla tv privata, per la Rai ci vuole ben altro che un direttore generale promosso amministratore delegato.
In Italia, radio e televisione danno lavoro a 25 mila persone. L’audiovisivo a 85 mila. Nel Regno Unito e in Francia l’audiovisivo conta 3-4 volte gli addetti che ha in Italia. In entrambi i Paesi, in forme assai diverse, è la mano pubblica a fare da levatrice all’iniziativa privata nella fiction, nei format e nell’animazione. E la Rai? Dopo aver favorito la frammentazione clientelare del settore, taglia 27 milioni di spese per la fiction, anziché cambiare la politica degli acquisti per sviluppare la produzione nazionale e fare economie, invece, nelle sue burocrazie. A questo punto, non è forse arrivato il momento di superare i vecchi approcci che partono dall’utilizzatore finale, l’emittente tv, e ripartire dalla produzione audiovisiva che può promuovere il nome dell’Italia nel mondo e aumentare un po’ l’offerta di lavoro in un Paese che ne ha così grande urgenza? Ridefinendo il ruolo industriale della Rai si arriverà  a una riforma più convincente del duopolio.
L’Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, vuole una Rai ancora pubblica, ma retta da una fondazione che la preservi dalla lottizzazione partitica e con un canale senza spot pagato dal canone. Non dice se le reti pubbliche senza canone possano mandare in onda lo stesso numero di spot delle reti private. Una reticenza? Certo è che Berlusconi è sempre stato contrario alla parità  di spot, comunque giustificata, e alla privatizzazione della «Rai commerciale», che la renderebbe inevitabile e oggi potrebbe addirittura finire a basso prezzo all’arcinemico Carlo De Benedetti. Ora il Pd, per bocca di Pier Luigi Bersani, si è chiamato fuori dalle nomine. Se così farà  anche il Pdl, sarà  ancora più chiaro che l’ultima parola tocca all’azionista unico della Rai, il ministero dell’Economia, retto ad interim da Mario Monti. Il premier delle liberalizzazioni.

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