by Editore | 3 Febbraio 2012 3:15
Caro Direttore,
Su Repubblica del 28 gennaio, Alessandro Penati giustamente sottolinea come l’Italia attragga una quota di investimenti diretti esteri sensibilmente inferiore rispetto ai principali partner europei. Questo è vero ed è opportuno anche sottolineare che le imprese a capitale estero in Italia danno lavoro a circa 1 milione e 300 mila dipendenti, generando un fatturato di oltre 500 miliardi di euro.
Queste imprese sono spesso aziende innovative, che scelgono il nostro Paese perché scommettono sulla creatività e sulle competenze che l’Italia sa offrire. Questo è particolarmente evidente se pensiamo che le imprese a capitale estero spendono (dati 2009) cinque volte in ricerca e sviluppo la media delle imprese italiane.
Penati pone un problema importantissimo. Basti pensare che in Francia 14 lavoratori su 100 lavorano in un’azienda a capitale straniero, 9,2 in Svizzera e Germania, e solo 3,7 nel nostro Paese. Ne abbiamo di strada da fare, per rientrare nella media europea. Ma è necessario. Attrarre investimenti stranieri significa portare risorse nel nostro Paese: risorse che «restano» all’Italia, che diventano occupazione e (pensiamo agli investimenti in ricerca e sviluppo) opportunità per incentivare la crescita.
La forza di un Paese non sta nelle merci che esporta, ma nel capitale che attrae. La sfida globale ormai si gioca sul piano dell’attrattività . I Paesi competono tra di loro per attrarre investimenti e il mondo non è «piatto», non è tutto uguale: aziende e investitori si muovono in funzione di una pluralità di fattori, uno è indubbiamente la qualità e il costo della manodopera, ma quello più rilevante è l’attrattività dell’ambiente normativo.
Per attirare investimenti l’Italia deve ridurre le barriere improprie all’attività imprenditoriale. La prima di queste è l’eccessiva complessità delle norme che regolano le attività economiche in Italia. Il nostro è un diritto labirintico e bizantino, frutto di una sedimentazione di decenni. Quale che fosse la razionalità delle singole regole, tutte assieme esse determinano una coltre di nebbia che rende il nostro Paese incomprensibile ai molti che vorrebbero venire da noi a fare impresa. Il primo nemico dello sviluppo economico è l’incertezza.
Un’impresa che decide di investire all’estero non è preoccupata dalla difficoltà degli ostacoli. Per questi ha le risorse da mettere in campo per superarli. Ma è scoraggiata dalla sistematicità degli imprevisti che le impediscono di controllare il percorso.
Come Comitato Investitori Esteri di Confindustria, abbiamo presentato al governo un elenco di priorità , sulle quali focalizzare l’attenzione. Queste priorità sono coerenti con quanto il Governo sta già facendo: a cominciare dai decreti sulle liberalizzazioni e semplificazioni.
L’obiettivo dovrebbe essere quello di arrivare a livelli «francesi» come attrazione di investimenti esteri. La Francia ha un sistema giuridico simile al nostro, un welfare paragonabile a quello italiano, un’imposizione fiscale più alta di quella italiana sulle persone fisiche (ma inferiore sulle imprese), un’imprenditoria «di base» senz’altro meno vivace.
Proprio perché già si sta facendo molto, non è illusorio pensare che il Governo possa fare di più. Per attrarre sempre più investimenti diretti esteri, l’Italia ha bisogno di quelle riforme che la rendano un mercato il più omogeneo possibile ai suoi concorrenti. E’ importante cioè che la razionalizzazione del sistema coinvolga norme e agenzie preposte allo stimolo dell’economia.
L’investitore estero che arriva in Italia è disarmato innanzi alla complessità del diritto e disorientato dalla babele amministrativa. Avere un singolo punto di contatto, uno «sportello unico» dotato di poteri di azione e risoluzione, sarebbe il primo passo per assicurarci che chi vuole investire in Italia (o chi già è qui) non sia messo in condizione di cambiare idea. Perché se diventeremo un Paese che attrae, saremo anche un Paese migliore in cui operare noi stessi.
*Presidente Comitato Investitori Esteri Confindustria Presidente Eni
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