Kenya, la fabbrica dei maratoneti

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Buio capre e stelle. Poesia alla rovescia: alle cinque del mattino. La più grande industria di materia prima del mondo apre presto per evitare il caldo. Fabbrica motore umano: fiato e gambe per la resistenza ad alta velocità . Esporta molto all’estero: energia pulita che si vende benissimo. Per spostarsi il resto del pianeta gira la chiave, il Kenya invece corre. On the road. E in altura: a 2.200 metri. La Rift Valley, 300 chilometri a nord-ovest di Nairobi è un’officina all’aria aperta: alberi, cactus, papiri, vento, fango (tanto) quando piove. Non c’è cartellino, la forza-lavoro si conta agli incroci, alla junction appena fuori Kaptagat o Iten, su sentieri sconnessi e pietrosi, pieni di voragini, tra capanne, mucche, pastori, galli che cantano, bimbi piccoli che vanno a scuola a piedi, fieri nella loro divisa blu, pure se è bucherellata, gente che in bicicletta sul portapacchi ha tre metri di legna e due cesti di galline. Ombre che emergono dal buio, scalpiccio di cavalli in corsa. È l’alba, non c’è ancora il sole, ma sembra mezzogiorno. Vanno a piedi e di corsa. I pick-up scaricano uomini in tuta, nuova manovalanza del mercato del fiato. C’è un gran traffico di corridori, c’è il gruppo che va verso l’interno e chi sceglie altre direzioni. 
Sono in mille da queste parti a calpestare ogni mattina le vene aperte dell’Africa. Non parlano, corrono. Sudano e si sfiancano, scheletri con poca ciccia, 60 chili scarsi (gli uomini). Consumano chilometri e minuti. Rubano i campi alle vacche che si sentono defraudate e fanno sit-in. Se chiedi alla polvere ti risponderà : nessuno sa fare vibrare la terra come loro. Il Kenya ha il monopolio delle maratone. L’anno scorso 98 suoi atleti hanno trionfato sulle strade del mondo. Nella lista delle prime cento miglior prestazioni solo kenyani e qualche raro intruso. Dalla fabbrica escono pezzi di tribù diverse ma il prodotto non cambia: il Kenya domina per quantità  e intensità . Sono in 150 tra gli uomini ad avere il minimo per la qualificazione ai Giochi di Londra e 50 tra le donne. Ma i posti sono solo tre. E quassù tra Eldoret e Iten, Home of the Champions, arrivano scienziati, fisiologi, statistici: tutti per scoprire il segreto di un’industria che nel 2011 ha dichiarato ufficialmente guadagni per 10 milioni di euro. Quando il 75% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e un direttore di banca con laurea e macchina guadagna 500 euro al mese. Ah sì certo, superiorità  genetica, l’altura che equivale ad una spremuta di globuli rossi, dieta giusta di carboidrati, piedi reattivi, fiato che non ansima mai, nemmeno quando al quarantesimo chilometro c’è da accendere i razzi. Così dall’estero vengono tutti qui: a guardare, imparare, copiare. A scoprire il segreto: campioni si nasce o si diventa? Dieci anni fa Iten era un paesino sconosciuto, pieno di buche e di saltafossi. Le buche sono rimaste, gli abitanti sono quattromila, ma ora è diventata un’università  della maratona, con la stessa fama di Harvard. È appena andata via Paula Radcliffe, inglese, grande macina chilometri, con lei c’era anche Mo Farah, somalo-britannico, campione mondiale dei 5 mila. Veniva qui ad allenarsi Stefano Baldini, oro ad Atene nel 2004, ci viene anche Ruggero Pertile, miglior specialista azzurro.
E allora via nel buio a seguire questi braccianti della corsa, ormai diventati richiestissimi pusher della fatica, gli ultimi rimasti. A Kaptagat nel gruppo di Patrick Sang si allena Emmanuel Mutai, 28 anni, l’anno scorso primo a Londra e secondo a New York. Primo di sei figli, nato nel distretto di Uasin Gishu, genitori contadini, ora sposato, con due bimbi, 3 e 4 anni. «A scuola ero bravo, stavo quasi ottenendo una borsa di studio in Illinois, ma ci voleva troppo, così ho provato a correre su strada, visto che su pista non andavo, e già  da ragazzo mi sono specializzato. Vedevo allenarsi i grandi campioni come Ismael Kirui e Richard Chelimo e mi dicevo: ce la posso fare anch’io». Ce l’ha fatta, nel 2011 ha vinto un milione di dollari e non l’ha buttato via. «Non mi vedrete mai con una macchina costosa o con grandi gioielli. Voglio pensare al futuro, essere saggio, per quando mi fermerò. Ho comprato terra e casa». Come cantante gli piace Rihanna, ha l’hobby del gregge, di sera va sul computer a controllare i risultati degli avversari. Prima sorpresa: nei periodi di allenamento non vive con la famiglia, ma in un camp, che è una parola grossa per indicare un gruppo di stanze, con un giardinetto, una cucina con forno a legna e cancello. Fuori ci sono pecorelle (con una zampa legata a terra), capre e mucche. Nel camp non c’è acqua potabile, né frigo, Mutai si lava in una bacinella maglia e calzini, e la stende al sole, cosi fanno anche gli altri. La cella ha un letto con la zanzariera, tetto di lamiera, e due tubetti di lucido per scarpe, perché qui ci tengono ad averle pulite. Uno chiede: ma come hai fatto fortuna e vivi da poveraccio? Risposta: «Se resto nel mio villaggio tutti mi vengono a chiedere favori e anche la mia famiglia mi domanda di fare acquisti o di provvedere ad altre necessità . Se ti alleni duramente hai bisogno di concentrarti». A Mutai non pesa quello spazio angusto, è lo stesso in cui è cresciuto. Seconda sorpresa: correre non è più solo passione, ma una professione remunerativa che ha bisogno di aggiornamenti. Naif è bello, ma dura poco. La villa del vicino invece è simbolo di successo e di continuità . L’idolo di tutti è Paul Tergat, non tanto perché nel 2003 ha realizzato la miglior prestazione mondiale della specialità , ma perché è un uomo di successo e ha affari che vanno bene. Si vince, si guadagna, ci si sistema, che è un altro modo per continuare a vincere. I campioni disgraziati non vanno più di moda. Meglio quelli che si sanno amministrare. Se però scrivi su un giornale locale quanto guadagna un’atleta, quella ti richiama e ti dice che sei un farabutto. E guai a raccontare che tieni le medaglie in casa. I soldi ti fanno diventare una preda, per delinquenti e parenti. Chaterine Ndereba, ex regina della specialità , è stata rapinata a casa già  tre volte.
Renato Canova, 67 anni, allenatore italiano stabilmente in Kenya da 10 stagioni, segue molti campioni e atleti di prima fascia (35 circa). «Mi interessa educare, non solo fare programmi sportivi. L’atleta kenyano viene da una realtà  rurale e da un vita di sofferenza che ritrova e affronta nella maratona. Questa è gente che non ha niente e che ha piacere ad avere qualcosa. Lo spirito di emulazione è fondamentale. Quando seguo Abel Kirui ce ne sono altri 15 che corrono con lui e che non conosco, amici, conoscenti, vicini, magari dopo quattro mesi viene fuori un talento, le selezioni le faccio così. La nuova generazione spinge e non ha più limiti mentali». Con Kirui, 30 anni, campione mondiale 2011, sposato, due figli, si parte sempre all’alba per 40 chilometri spinti su un sentiero polveroso verso Ziwa, 2.600 metri, ma al trentesimo Abel non sta bene, ha conati di vomito e si ferma. «Non ho digerito il tè». In realtà , dice Canova, il problema sono le condizioni igieniche. «L’acqua non è potabile e se la devi far bollire in altura passano ore, i problemi intestinali sono molto frequenti». Kirui vive anche lui in un piccolo camp nella Kerio valley, una specie di abisso sul mondo, sferzato dal vento, con vista mozzafiato su fiume, verde e colline. La stanza è buia, ma tappezzata di giornali che parlano della sua ultima impresa, c’è un pentolino con un po’ di verdure, un letto, abiti per terra. Spiega con orgoglio che ha costruito una bella casa a Kapsabet e che ha investito in alcune abitazioni che affitterà . «Così se mi faccio male ho un lavoro». Tutti loro ci tengono a dare un futuro migliore ai bambini, a fare scuole e a pagare gli insegnanti, su questo la solidarietà  è reale. Racconta Kirui, della tribù dei Nandi: «Quando ero ragazzo avevamo un sola mucca, dovevo per forza trovare qualcosa con cui aiutare la mia famiglia». 
Oggi ha tirato il gruppo un ventenne, Erik Ndiema, in 2h08’22”. Canova predica intensità , c’è chi resta indietro, chi resiste, ma tutti sudano. E ci sono i ragazzini che andando a scuola si mettono a correre dietro ai maratoneti fino a quando non si spolmonano. Train hard, win easy. Allenati duro, vinci facile. E fuori tu, avanti un altro. C’è concorrenza interna, dedizione, più attenzione: massaggi, prevenzione, mobilità  articolare. La maratona ormai è un core business, guai a perdere fette di mercato, non è cimitero per elefanti ma traguardo per iene. Gli italiani in questo pezzo di Kenya hanno le loro scuole: c’è la Demadonna Athletics e c’è il gruppo Rosa e associati, attrezzato in maniera moderna. Claudio Berardelli, 31 anni, tecnico, segue e cresce talenti dal 2004, spiega che in Kenya sta cambiando tutto: «Gli atleti oggi hanno maggior consapevolezza, non vogliono buttarsi via, ma imparare a gestirsi. Questo significa che siamo davanti a una svolta». Non improvvisano più, ormai sono operai specializzati in lucida follia. Nessuno più parla di gioia della corsa, ma tutti di lavoro. Da difendere dai tanti che te lo vogliono portare via. A Iten gli organizzatori della maratona di Londra hanno appena inaugurato un muro che celebra l’eccellenza di questa regione. Sopra ci sono ritratti (malamente) tutti i vincitori kenyani: dall’89 al 2011, da Wakiihuri a Mutai, i corridori della Rift Valley hanno assottigliato il record di 4’23”. 
A vederli ammazzarsi di fatica, alba dopo alba, saltare fossi, evitare mucche, pare di capire che il segreto di questa culla di campioni sia nel cuscino duro e storto. Quassù non c’è un solo metro di pianura né un chilometro di semplicità . Curve e zigzag. Il Kenya azzanna i minuti, accorcia il ritmo, trattiene il fiato, e corre senza voltarsi.


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