by Editore | 26 Febbraio 2012 16:35
NEW YORK – Due funzionari americani uccisi nel posto che fino a ieri veniva considerato il più sicuro d’Afghanistan: il ministero degli Interni. L’ordine di evacuazione scattata per centinaia e centinaia di militari e funzionari Usa e Nato. Migliaia di manifestanti che incitano alla guerra santa contro gli invasori Usa nel quinto giorno della rivolta scoppiata per il rogo del Corano che ha già fatto quasi 30 morti. L’ambasciatore in Afghanistan Ryan C. Crocker che con una mossa senza precedenti scrive un cable-supersegreto a Washington, chiedendo di intensificare l’azione contro il Pakistan: dove il clan degli Haqqani, coperto dai servizi di Islamabad, guida la nuova offensiva talebana. E tutto questo mentre il Pentagono è in subbuglio per l’altra potenza irrequieta di quel confine, cioè l’Iran: e si prepara alla guerra nel Golfo in previsione della chiusura dello stretto di Hormuz minacciata dagli ayatollah.
Altro che scacchiere mediorientale. Questa guerra non dichiarata ha già un nome: è la guerra d’AfghanIran. Mai la tensione era arrivata ai livelli degli ultimi giorni. Il rogo del Corano davanti alla base militare di Bagram è un incidente incredibile che rischia di diventare per l’America di Barack Obama più grave di quegli orrori di Abu Ghraib che alimentarono l’insorgenza di Al Qaeda in Iraq ai tempi di George W. Bush. I “reperti” sono preziosamente custoditi come prove: l’ufficiale che avrebbe dato l’incredibile ordine – così incredibile da aver innescato già teorie complottistiche anti-Obama – l’avrebbe fatto per distruggere i messaggi che i tremila guerriglieri detenuti nella base-carcere avevano annotato nei libri sacri. Possibile?
L’uccisione dei due funzionari americani dimostra che la rivolta rischia di sfuggire a ogni controllo. Solo personale afgano fidato può pattugliare gli uffici ministeriali. E proprio uno di questi soldati, che dal 2014 dovrebbe raccogliere dagli americani la sicurezza del Paese, ha puntato le armi contro di loro. I militari di Kabul hanno già un nome in codice per questi “incidenti” sempre più numerosi: “green on blu” – il soldato verde afgano che uccide le truppe blu americane e Nato. La fuga dai ministeri del personale alleato rischia adesso di rallentare quel ritiro che comincerà con la riduzione delle truppe Usa a 68 mila unità decisa già entro l’estate. Un’altra battuta d’arresto per Obama: che per le scuse pubbliche per il rogo è già finito qui in patria nel mirino dei repubblicani che a novembre vorrebbero cacciarlo dalla Casa Bianca.
Momento delicatissimo. E per questo dall’Amministrazione alla Cia tutti frenano sulla conclusione che Israele e alcuni servizi europei sbandierano già : e cioè che Teheran potrebbe avere la bomba atomica nel giro di un anno. Il New York Times dice che i servizi non vogliono incorrere nell’errore propiziato da Bush che nel 2002 portò a credere che Saddam Hussein si fosse dotato di armi di sterminio di massa. Il paradosso rispetto a dieci anni fa è che stavolta sono gli ispettori dell’Onu, come hanno fatto venerdì, a dire che l’Iran sta ottenendo sempre più uranio arricchito a un livello ben oltre il necessario per il nucleare pacifico.
Gli esperti Usa suggeriscono che potrebbe trattarsi di “strategic ambiguity”: gli ayatollah vogliono far credere di essere pronti alla bomba ma in realtà non hanno ancora i mezzi. Per questo impediscono agli inviati dell’Onu di visitare i siti nascosti nelle montagne peraltro impermeabili a quegli Massive Ordnance Penetrator da 13 tonnellate che gli americani stanno in fretta e furia rimettendo a posto.
Ma se i servizi frenano, il Pentagono di Leon Panetta intanto si prepara. Chiedendo al Congresso 100 milioni di dollari per schierare nel Golfo truppe equipaggiate per l’identificazione delle cinquemila mine che Teheran minaccia di piazzare per bloccare lo stretto che raccoglie il 20 per cento del commercio di petrolio. Non solo. Gli americani si preparano anche a snellire gli equipaggi e a modificare i missili a lungo raggio per colpire le navi più agili e veloci degli iraniani. Obiettivo: essere pronti per novembre. Quando in Israele sarebbe già deciso l’attacco contro gli insediamenti atomici. E alla Casa Bianca si gioca la rielezione più difficile degli ultimi vent’anni.
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